JE EST UN AUTRE: LACAN LETTORE DI RIMBAUD
Je est un autre. Io è un altro. Sradicato e allontanato dal centro della sua stabilità perenne, dalla convinzione, ferma e rassicurante, di essere uno con se stesso, il soggetto erra smarrito nell’universo dell’alterità, al di fuori di sé, al di fuori della sua individualità, a contatto con la presenza inquietante dell’Altro che abita il sé. Presenza ossessiva, presenza ingombrante.
il 13 maggio 1871, e Arthur Rimbaud scrive una lettera a Georges Izambard, suo professore al collège di Charleville: la poesia è rivoluzionata, la figura del poeta sconvolta, toccata nel profondo da un’idea destinata a cambiare il concetto stesso di soggettività poetica, e, come interpreterà la psicanalisi, di soggettività in senso lato. Vi è nell’affermazione rimbaudiana “Je est un autre” qualcosa di sconvolgente, uno sconvolgimento linguistico che testimonia di uno sconvolgimento ontologico di fondo: se, infatti, Rimbaud si fosse limitato a un semplice e forse più comprensibile “je suis un autre”, “io sono un altro”, si sarebbe trattato – molto immediatamente – di un’immedesimazione del soggetto in un altro al di fuori di lui, senza per questo dissolversi in quanto soggetto.
Per dirlo in un’altra maniera, l’azione di immedesimarsi in un’alterità (oggetto o persona che sia), al di fuori del proprio io, non cambia né mette in questione lo statuto di questo stesso io: io sono sempre io, e le azioni che compio provengono dall’individualità unitaria, unica, unita che io sono. Ma quando Rimbaud afferma che “Io è un Altro”, “Io è” e non già “io sono”, è la soggettività in quanto tale ad essere messa in questione, se non addirittura negata, perché, in fondo, dire “Io è un Altro” significa ammettere che l’Io “non è padrone in casa propria” – per dirla con Freud – che ogni individualità è, in realtà, abitata da un’alterità, da un Altro che la perturba e la frammenta, da un abisso insondabile che assedia e tormenta.
È da quest’idea, da questo decentramento e smarrimento di un soggetto che ha perso la sua identità che Rimbaud elabora la propria concezione di poesia, opponendosi a quella che egli stesso definisce “poesia soggettiva”, cioè una poesia armonica e apollinea, che si esprime attraverso la voce dell’Io, di un’individualità definita e unita. Al contrario, la voce della poesia rimbaudiana è la voce dell’Altro, dell’abisso sconosciuto che abita l’Io, e che si raggiunge soltanto par le déréglement de tous les sens, attraverso uno sregolamento sensoriale “lungo” e “immenso”, che porta con sé toutes les formes d’amour, de souffrance, de folie, come Rimbaud scrive nella lettera a Paul Demeny del 15 maggio 1871. Così, dunque, la fonte prima dell’ispirazione poetica non è più l’Io in quanto entità stabile e solida, ma un io che è Altro, che si getta in un caos informe e magmatico, baccante in preda a un dionisismo sregolato, sfrenato, che sonda gli abissi più reconditi di un soggetto dissolto e sconvolto.
Ma per vedere questi abissi, in fondo, il faut être voyant, se faire voyant, il poeta deve essere e farsi veggente, “grande malato, grande criminale, grande maledetto”, disposto a sopportare e trasformare le “sofferenze enormi” che derivano dal decentramento alienato della sua identità. Così, dunque, se la voce dell’Io è il mezzo di espressione della poésie subjective, allora la voce dell’Altro è l’espressione della poésie objective di cui Rimbaud si fa capostipite: per poésie objective – espressione che potremmo tradurre con “poesia oggettuale” – si intende non già una poesia che canta l’unità armonica del soggetto, di un io padrone a casa propria, che predica alla prima persona i propri stati e le proprie azioni – je suis, je pense – bensì una poesia che rappresenta il contatto fatale con l’Altro, l’incontro e l’impatto con un altrove sconosciuto, che porta necessariamente con sé uno sconvolgimento linguistico: “è falso dire: Io penso. Si dovrebbe dire: mi si pensa”, on me pense, come suona in francese.
Il linguaggio, dunque, si adatta e riflette il decentramento e la spersonalizzazione dell’Io, che cessa di essere soggetto grammaticale ed ontologico del pensiero e delle azioni, per diventarne l’oggetto, l’oggetto di un pensiero non coincidente con la coscienza. Capiamo, dunque, in che termini Rimbaud può affermare e giustificare l’espressione Je est un autre: il pensiero non è più un’identità cosciente, il soggetto non è più un uno con se stesso, ma, scisso e frammentato, si ritrova al di fuori di sé, nell’Altro che lo spossessa e lo spodesta.
Nella poliedricità tortuosa del suo pensiero, è Jacques Lacan ad accogliere l’affermazione rimbaudiana in tutta la sua carica sovversiva, declinando in termini psicanalitici il decentramento del soggetto di cui parlava il poète maudit nelle sue lettere a Georges Izambard e Paul Demeny. Quando Lacan descrive lo stadio dello specchio come “formatore della funzione dell’Io”, come tappa fondamentale nello sviluppo psichico del soggetto, possiamo effettivamente vedere una rappresentazione dell’alienazione costitutiva del soggetto. Il bambino, insomma, nel momento in cui si vede, per la prima volta, riflesso nello specchio e riconosce quell’immagine come propria, capisce in un certo modo che Je est un autre, che il suo Io è fuori di sé, che il suo Io è l’Altro, quell’immagine che lo spossessa e lo aliena.
Nel momento stesso in cui si forma, l’Io è lacerato e separato da stesso, la soggettività nasce da una scissione, da una non-coincidenza con se stessa: il bambino vede di fronte a sé un’immagine che riconduce al proprio Io, ma che, allo stesso tempo, gli è esterna, è fuori, è fissa, è altrove, è Altro. Leggere con Lacan l’affermazione “Io è un altro” significa ammettere che l’origine del soggetto non è l’interiorità, bensì l’esteriorità, il contatto costante che l’Io ha con l’Altro, l’incontro con l’esterno, o meglio, gli incontri che, uno dopo l’altro, si stratificano e formano l’identità stessa del soggetto. In altre parole, l’Io non è un nucleo definito, ma il frutto di una stratificazione successiva.
Da qui l’efficace similitudine che Lacan propone nel Seminario I: «L’Io è un oggetto fatto come una cipolla: lo si potrebbe pelare e si troverebbero le identificazioni successive che lo hanno costituito». Ora, queste “identificazioni successive” di cui il soggetto è costituito sono, appunto, le immagini in cui l’Io si proietta, l’Altro che l’Io cerca per identificarvisi e riconoscervisi, la sedimentazione costante e stratificata di ideali, immagini, incontri con l’Altro. L’Io, insomma, non è una sostanza né un nucleo compatto, che dice di sé “io sono” e “io penso”, ma è un continuo eccedere, un essere-fuori-di sé, un aggrapparsi e cercarsi in qualcosa di esterno, l’Io è un’apertura, che si crea e si origina a partire dell’incontro con l’Altro. Incontro fatale, impatto traumatico: l’Io diventa Altro, l’Io è un altro.
@ILLUS. by FRANCENSTEIN ft. G.E.O.M., 2021