KIERKEGAARD OGGI. Note a margine
Leggere Kierkegaard oggi. Leggerlo ancora, leggerlo sempre. Trovare, nella riflessione del grande pensatore danese, un fiotto di luce (il quale può darsi, quando può darsi, solo nel chiaroscuro della vicenda umana: né accecante chiarore, né completa tenebra) capace di dischiudere verità impensate, abissali. Spesso, queste briciole filosofiche, sono pensieri che feriscono alle spalle: è proprio la radicalità della proposta kierkegaardiana, così perlomeno mi pare, a costituirne l’inattuale attualità, l’ideale contemporaneità di chi ha saputo pronunciare una parola essenziale per il dominio esistenziale, nel suo rispetto etico, nel suo rispetto religioso, senza mai scordare lo scandalo dell’estetico.
Filosofia ed esistenza, in Kierkegaard, sono poli indisgiungibili: solo la messa in tensione tra i due termini è atta a qualificare il pensiero kierkegaardiano, in una continua revisione, riforma e ritrattazione della dialettica hegeliana, la cui figura superiore è còlta in una dialettica dell’indialettizzabile, fulcro della quale diviene, ora, il singolo – l’esistente, appunto. Esistenzialismo, dunque, per utilizzare un ben noto -ismo, le cui radici sono da rinvenire nel solco di quella tradizione che ha posto al centro quella zona d’ombra, quel coagulo cui diamo nome di “esistente” che, fino ad allora, era rimasto nelle periferie del discorso filosofico ufficiale. Da Agostino a Pascal (senza dimenticare Lutero), la concretezza ineffabile della singolarità viene a problematizzarsi non per astratti procedimenti scolastici, ma per l’avvertita urgenza, ormai non più rimandabile o ad altri demandabile, che io sono per me medesimo. Nei molti pomeriggi della vita, allorché “contenebratum est cor meum”, non soccorre l’inquieto cuore la logica dell’Aufhebung, rinnovellata teodicea, perenne tentazione di ogni naturalismo essenzialista; non consola l’empia, irreligiosa religione degli amici la tristitia di Giobbe. Lenisce invece tutto il dolore, nell’istante (quel “battito di ciglia” che è l’unica estasi qualificata all’accoglimento dell’Eterno nel tempo, come insegnano le Briciole filosofiche), il ritorno che l’uomo deve, perché lo può, compiere in se stesso, per così rinvenire al suo centro, in una vertiginosa coincidentia oppositorum, l’infinità del Figlio dell’Uomo. A una pedagogia cristica, a una sequela dell’autentico cristianesimo (di contro a quello stabilito della cristianità) accennano le pagine fondamentali de La malattia per la morte, dove l’esistenza umana è folgorata quale sintesi (ma ben diversa da quella hegelista!), legame, rapporto: finito, l’uomo aspira all’infinito, per tosto ricadere nel finito che lo costituisce, nella finitezza che egli – per quanto fatto per l’infinità – è, e nella quale e della quale deve cercare la verità.
Tuttavia, egli può intentare questa ricerca solo in quanto ha in sé (solo in quanto è) la struttura dell’accoglienza dell’infinito: exemplum di questo incontro è Cristo, nella dinamica possibilità della salvezza che l’Incarnazione paradossalmente rappresenta. Alla compiutezza, all’immodificabile stabilità della persona, Kierkegaard (e già a partire dall’altezza di Enten-Eller) contrappone l’agonico strutturarsi, la possibilitazione continua, l’incerta condizione della personalità: non un dato, ma un darsi; non un fatto, ma un farsi, che sappia kenoticamente svuotare – nella linea di pensiero cui si accennava prima, e al quale si ha qui da aggiungere la tradizione della teologia negativa – il plenum ontologico dell’equazione Deus–Esse. Ben compendia il continuo divenire della personalità, della sua concreta e reale possibilità, quanto il filosofo scrive a proposito dei tre stadi, delle tre sfere dell’esistenza cui prima si accennava. Non si dà, qui, a ben vedere, netta separazione, confini invalicabili, quanto piuttosto continuo transito, ininterrotto movimento decostruttivo da un limite all’altro (e, secondo Jacques Derrida, proprio in questo attraversamento mistica e filosofia, mistica e decostruzione omnino convertuntur), spostamento talora addirittura impercettibile, avvicinamenti sorprendenti e altrettanto sorprendenti distanze. Come altrimenti qualificare quello che parrebbe essere, nella riscrittura della pericope genesiaca di Timore e tremore, un’inedita contiguità tra piano estetico e piano religioso, nel loro incontro suggellato dal silenzio e dall’incomunicabilità? Ma poi, a ben vedere, tanto gli Stadi sul cammino della vita quanto la Postilla conclusiva non scientifica alle “Briciole di filosofia”, sono interamente costruiti, a una più attenta lettura, per tentare di riavvicinare l’etico al religioso, il religioso all’etico, tanto da prospettare uno stadio immediatamente etico-religioso.
Sono, questi, problemi aperti, e che tali non possono che dimorare, perché esistenzialmente irrisolvibili: personalità come costruzione, come edificazione su, e a partire da, lacerazioni, fratture, faglie incomponibili, dalle quali tuttavia, sole, l’uomo può cercare di edificare quella verità che sia verità per sé (come suona il più preciso scandaglio intorno al religioso tentato in Enten-Eller, forse allora non per caso rientrante nell’orbita dell’etico), nell’esodo continuo da veritas a caritas, dall’amore agli “atti dell’amore”, perché, come insegna Lacan (compartecipe lettore del filosofo danese), l’amore non è altro che dare ciò che non si ha, e darlo a chi non lo vuole. Una parola di libertà, ecco soprattutto cosa lascia, oggi, a tutti quei “Singoli” che vorranno continuare a riflettere con Kierkegaard, oltre Kierkegaard, contro Kierkegaard – ma mai senza Kierkegaard.
@ILLUS. by KITSCHSTER, 2024