L’IMPENSATO – LA COSCIENZA È EPIFENOMENO DELLA COGNIZIONE NONCONSCIA?
Estratto da L’impensato. Teoria della cognizione naturale, di N. Katherine Hayles, tradotto da Silvia dal Dosso e Gregorio Magini, Effequ 2021.
L’importanza dell’elaborazione dell’informazione nel nonconscio cognitivo
La ricerca empirica sulla cognizione nonconscia umana si è concentrata in massima parte sul mascheramento visivo, una tecnica che può essere implementata sia mostrando stimoli visivi troppo brevi per essere ‘visti’ a livello conscio, sia esponendo i soggetti a delle sequenze visive in cui è richiesto di isolare degli stimoli che sono però ‘nascosti’ da una complessa gamma di simboli distrattori. Nella loro rassegna critica di questi esperimenti, Sid Kouider e Stanislas Dehaene riconducono la varietà di risposte della psicologia clinica all’idea che gli stimoli subliminali sono elaborati nonconsciamente e influiscono in modo diverso sulle susseguenti percezioni consce[1]. L’interesse per questi esperimenti, che presero avvio nel Diciannovesimo secolo, e proseguirono per tutto il Ventesimo, raggiunse il suo picco negli anni Sessanta e Settanta. Tuttavia, esami successivi fecero emergere le tare metodologiche di molti degli esperimenti dell’epoca: in primo luogo, non vi era stato rigore sufficiente nel determinare se gli stimoli fossero stati effettivamente percepiti solo inconsciamente. Si cercò allora di porre rimedio riprogettando gli esperimenti, con risultati positivi: all’inizio del Ventunesimo secolo, lo scetticismo degli anni Ottanta fu sostituito da un consenso verso la cognizione nonconscia come elemento reale che influenza il comportamento su più livelli, dalle risposte motorie a quelle lessicali, fino a quelle ortografiche e persino semantiche. Vi è tuttavia una pluralità di vedute sul livello d’importanza della cognizione nonconscia e sulle modalità d’interazione con la coscienza.
Le argomentazioni più favorevoli sono articolate nella recensione di Pawel Lewicki, Thomas Hill e Maria Czyzewska, che esaminano i risultati di psicologia cognitiva, scienze cognitive e altre discipline sulle funzioni e strutture del nonconscio cognitivo. Tali argomentazioni citano prove empiriche a supporto dell’idea che la cognizione nonconscia, così come il riconoscimento di pattern, disponga di sofisticate capacità di elaborazione delle informazioni, inclusa l’abilità di trarre inferenze, di creare meta algoritmi e di elaborare preferenze estetiche e sociali. Dopo aver ricordato che la coscienza è molto più lenta dei processi nonconsci, segnalano che “i processi di acquisizione di informazione nonconsci sono incommensurabilmente più rapidi e più sofisticati dal punto di vista strutturale[2]”. Il loro assunto di base è che l’abilità del nonconscio di acquisire informazioni “è un presupposto metateorico generale di quasi tutta la psicologia cognitiva contemporanea”, perché chi fa ricerca di solito dà per scontato che i soggetti degli esperimenti non saranno in grado di rendere conto di come hanno acquisito la conoscenza che dimostrano di possedere attraverso il loro comportamento. Non è solo una questione di difficoltà di articolare quello che si sa: il fatto è che i soggetti “non solo non sanno come fanno a fare ciò che fanno, ma non lo hanno mai saputo”. Tale ignoranza indica una “fondamentale mancanza di accesso”, da parte della coscienza, “agli algoritmi e alle euristiche” del nonconscio, anche se tali processi nonconsci sono “necessari per ogni atto percettivo, anche il più banale”. In breve, la cognizione superiore non potrebbe esistere senza la cognizione nonconscia, che “è uno dei fondamenti del sistema cognitivo umano”.
Le prove a supporto di tali affermazioni provengono da un’ampia schiera di esperimenti che mostrano come i pattern siano riconosciuti a livello nonconscio. Quando ai soggetti degli esperimenti viene richiesto di eseguire consciamente gli stessi compiti di apprendimento che avevano eseguito precedentemente in maniera nonconscia, hanno prestazioni molto peggiori. Per esempio, in un esperimento, ai soggetti viene chiesto di individuare un carattere specifico (come la cifra ‘6’) su uno schermo pieno di simboli distrattori. Gli sperimentatori hanno scoperto che se c’è una correlazione costante tra i pattern dello sfondo e il carattere da individuare, i soggetti rispondono più efficacemente e più rapidamente. E nonostante le loro prestazioni dipendano dalla presenza di questi schemi ricorrenti, se viene chiesto loro di indicarli, non ci riescono. In un esperimento, a un gruppo di studenti universitari venne offerto un premio di cento dollari per chi riusciva a individuare lo schema ‘nascosto’: anche se alcuni dei partecipanti “passarono molte ore alla ricerca dell’indizio […] nessuno di loro propose alcuna ipotesi nemmeno lontanamente rilevante rispetto alla natura reale della manipolazione che subivano[3]”. Questo è solo uno degli innumerevoli esperimenti che confermano l’idea che il nonconscio cognitivo è inaccessibile alla coscienza e non può essere raggiunto con l’introspezione.
In una divertente variazione sul tema, uno di questi test coinvolse soggetti “sufficientemente dotati a livello intellettuale da essere in grado di esaminare tramite introspezione, e riferire, qualsiasi esperienza[4]”, vale a dire: un gruppo di docenti di un dipartimento di psicologia. Dapprima appresero a livello nonconscio un “set di algoritmi di codifica che permettevano loro di individuare con maggiore efficienza” il bersaglio, un miglioramento delle prestazioni attestato dalla maggiore velocità con cui portavano a termine il compito di ricerca. Dopodiché si cambiarono i pattern covarianti e la loro prestazione, come previsto, peggiorò. I soggetti erano stati informati che il test riguardava la cognizione nonconscia, ma anche se lo sapevano, e provarono in tutti i modi a capire il motivo per cui le loro prestazioni degradavano, “nessuno si avvicinò nemmeno lontanamente alla soluzione”. Invece, si lanciarono in congetture sulla presenza di fantomatici e minacciosi stimoli subliminali.
Alla fine dell’articolo, gli autori si interrogano: la cognizione nonconscia può essere considerata intelligente? Prevedibilmente, la risposta è che dipende da come si definisce l’intelligenza. Se intelligenza significa “avere degli obbiettivi […] ed essere in grado di perseguirli mettendo in moto azioni orientate”, allora la risposta è no. Ma se per intelligenza si intende “essere attrezzati per processare informazioni complesse con efficienza”, la risposta è sì[5]. È una conclusione significativa da molti punti di vista.
Per un verso, mette in evidenza la differenza tra ‘intelligenza’ e ‘cognizione’: l’intelligenza viene generalmente considerata un attributo, che può essere quantificato, misurato. È una cosa che può esserci oppure no. La cognizione invece è un processo che istanzia determinate dinamiche e regolarità strutturali. Perciò la cognizione è intrinsecamente dinamica e in costante aggiornamento, non un attributo stabile di una certa conformazione. Più avanti vedremo le implicazioni di tale distinzione sulle nostre concezioni generali dell’informazione e della sua elaborazione.
Un altro aspetto messo in evidenza dalla loro conclusione è la distinzione tra il comportamento orientato a obbiettivi e l’elaborazione di informazioni. Ma è una distinzione che ha dei margini di incertezza, perché se l’elaborazione di informazioni è anche la premessa per interpretazioni successive (lo abbiamo visto nel caso degli algoritmi nonconsci autoalimentati), allora i comportamenti e gli obbiettivi coscienti sono sempre già influenzati dalle inferenze che la cognizione nonconscia ha elaborato al di fuori del raggio di influenza della coscienza.
Riassumendo, i risultati di numerosi studi confermano che la cognizione nonconscia esegue con rapidità mansioni di elaborazione di informazioni complesse. Mostrano che la cognizione nonconscia è un potente strumento per l’individuazione di regolarità in complesse basi di informazioni e per trarre inferenze da tali conclusioni, che vanno a nutrire l’intuito, la creatività, le preferenze estetiche e le interazioni sociali. Se ricordiamo che i soggetti erano del tutto incapaci di identificare consciamente i pattern che avevano invece già imparato a livello nonconscio, possiamo apprezzare la conclusione degli autori: la cognizione nonconscia è
incomparabilmente più capace di processare strutture conoscitive formalmente complesse, è più rapida e complessivamente più ‘brillante’ delle corrispondenti abilità consce di identificare i significati degli stimoli[6].
È una conclusione che evidenzia una delle mie tesi principali: non tutta la cognizione è cosciente, e la cognizione nonconscia assume un rilievo particolare in ambienti ad alta densità e complessità di stimoli informativi.
Interazioni tra la cognizione nonconscia e la coscienza
Veniamo ad analizzare i modi in cui la cognizione nonconscia interagisce con la coscienza, influenzandola. Se le sue macchinazioni avvengono di nascosto dall’introspezione, com’è che si verifica tale influenza? Ci dovremo anche chiedere se l’influenza avvenga a senso unico dal nonconscio alla coscienza, o se vi sia anche una retroazione sul nonconscio da parte della coscienza. Queste domande sono affrontate da Stanislas Dehaene in Conscious and Nonconscious Processes[7], in cui propone un quadro teorico che coordina l’apprendimento nonconscio con la coscienza. Dehaene identifica la cognizione nonconscia con i “processori specializzati di informazioni” e cita a supporto le scansioni fMRI da esperimenti suoi e di altri che mostrano come questi processori specializzati inviino i loro risultati molto rapidamente, entro 270 millisecondi dopo la prima percezione nonconscia. È stato dimostrato che i processori influenzano le percezioni nei modi più vari, ad esempio innescando nel soggetto una predisposizione a tempi di risposta più rapidi se lo stimolo invisibile (subliminale) è congruo con l’oggetto che deve essere individuato, o al contrario impedendo il riconoscimento se lo stimolo è incongruo. Inoltre, i processori specializzati sono in grado di accumulare indizi fino al raggiungimento di una soglia dinamica, superata la quale si attiva la risposta. È un meccanismo che potrebbe spiegare l’apprendimento nonconscio, il cui effetto sarebbe compatibile con un abbassamento della soglia di attivazione.
Quali sono, allo stato dei fatti, i meccanismi che abilitano l’influenza reciproca tra cognizione nonconscia e coscienza? Dehaene propone un modello di circuiti di neuroni riverberanti, che si attivano tramite una combinazione di segnali bottom-up e top-down. Qui la dimensione temporale risulta fondamentale. Infatti, quando il contesto indica al controllo esecutivo cosciente che determina il centro dell’attenzione che l’informazione inoltrata dalle aree sensoriali è appropriata, allora i neuroni con assoni a lunga distanza, che sono correlati alla coscienza, iniziano a “inviare messaggi di supporto alle aree che li hanno in primo luogo eccitati”. Immaginiamo un cane che sente un suono nel bosco. Se la sua attenzione ne è catturata, alzerà le orecchie, come risultato dell’invio di segnali di supporto top-down in risposta a eccitazioni sensoriali a un livello più basso. Questo supporto top-down dai livelli superiori può inviare “segnali di amplificazione sempre più forti” fino al superamento della soglia dinamica, dopodiché “l’attivazione diviene auto-amplificante e aumenta in maniera non lineare”, e a quel punto le aree del cervello associate con la coscienza possono mantenere l’attivazione indipendentemente dal decadimento del segnale originale.
Questo fenomeno, che Dehaene chiama “accensione dello spazio di lavoro globale”, corrisponde al momento in cui i segnali in risalita dai processori specializzati fanno ingresso nella coscienza. Da questo momento in avanti, “l’informazione degli stimoli rappresentata nello spazio di lavoro globale si può propagare rapidamente a numerosi sistemi cerebrali”, via via che la coscienza recluta vari sistemi in tutto il corpo in coordinamento con la propria attività neurale. Ad esempio, il cane può aver identificato il suono come proveniente da un coniglio nelle vicinanze, e lanciarsi all’inseguimento. La dimensione temporale è un punto essenziale dell’analisi di Dehaene del funzionamento dei processori subcorticali, perché senza il supporto top-down i processori non possono rimanere attivati per più di mezzo secondo. E infatti, Dehaene definisce un segnale subliminale come un segnale che “possiede energia sufficiente per generare un’onda di attivazione in uscita dai processori specializzati” ma “non ha energia o durata sufficienti per innescare uno stato riverberante su larga scala in una rete globale di neuroni con assoni a lunga distanza”.
L’analisi fa emergere una distinzione utile tra l’elaborazione nonconscia o subliminale e il tipo di elaborazione ascrivibile al cosiddetto ‘attentional blink’, reso popolare dal lavoro divulgativo di Malcolm Gladwell[8]. Nell’attentional blink, l’informazione non raggiunge la coscienza perché lo spazio di lavoro globale è occupato da informazioni di un altro processore. Un modello di attentional blink elaborato da Dehaene, Claire Sergent e Jean-Pierre Changeux ha previsto efficacemente “la non linearità delle transizioni dall’elaborazione nonconscia alla percezione soggettiva. Tale dinamica ‘tutto o niente’ della percezione cosciente è stata verificata sperimentalmente in soggetti umani[9]”. Nel caso del gorilla che attraversa inosservato il campo da basket, per esempio, il modello prevede che lo spazio di lavoro globale non accetterà l’informazione inoltrata dai processi cognitivi nonconsci, perché è impegnato nel compito di contare il numero di passaggi. Il fenomeno dell’attentional blink, che è chiamato da Kouider e Dehaene “elaborazione preconscia[10]”, avviene “quando la trasmissione dell’elaborazione è limitata top-down, piuttosto che da una mancanza di forza dei segnali bottom-up”. L’elaborazione preconscia può entrare spontaneamente nello spazio di lavoro globale, purché non sia pieno. Per contro, l’elaborazione nonconscia o subliminale, se non riceve il supporto top-down necessario per rimanere in stato di attivazione, non ha la forza sufficiente per attivare da sola lo spazio di lavoro globale. Ciò spiega perché, nell’esempio del gorilla, alcuni soggetti percepirono consciamente l’intrusione: per un motivo o per un altro, la loro attenzione o il loro controllo esecutivo non era così concentrato sul conteggio da occupare interamente lo spazio di lavoro globale, rendendo così possibile l’ingresso ai processi preconsci contenenti informazioni sul gorilla, e la conseguente attivazione cosciente.
Dehaene rileva che la distinzione tra elaborazione preconscia e cognizione nonconscia implica una cosa importante: gli attivatori subliminali possono modulare i tempi di risposta ma “in sé e per sé, non inducono quasi mai un comportamento[11]”. Se la coscienza le affida un compito, la cognizione nonconscia lo porta a termine con efficienza ed efficacia. È in grado, inoltre, di integrare tipi di segnali differenti sia dall’interno del corpo che dall’esterno; può trarre inferenze da questi segnali; fare scelte interpretative che mediano tra informazioni ambigue o contraddittorie per attivare una molteplicità di comportamenti. Nonostante tutto ciò, la coscienza resta necessaria per “una rappresentazione di informazioni [che] entra in un processo decisionale” e “sostiene azioni volontarie con un senso di proprietà[12]”. È un punto di vista rispetto al quale la cognizione nonconscia si comporta come una consigliera fedele che aiuta e condiziona la coscienza, ma non prende iniziative spontanee – in altre parole, più simile a un vicepresidente come Joe Biden che a uno come Dick Cheney.
Possiamo completare la discussione sulla relazione tra nonconscio cognitivo e coscienza considerando i loro rispettivi ruoli evolutivi. Il tema è discusso da Birgitta Dresp-Langley:
L’apprendimento statistico, o apprendimento implicito di regolarità statistiche degli input sensoriali, è probabilmente, negli uomini e negli animali, la prima modalità di acquisizione di conoscenza sulla realtà fisica e sulla struttura di ambienti sensoriali continui […] Questa forma di apprendimento nonconscio opera trasversalmente a diversi ambiti, spaziali, temporali e di specie, e appare alla nascita quando il neonato è esposto e messo alla prova da flussi vocali.
La coscienza invece
entra in gioco molto più tardi nella vita dell’individuo, quando entrano in gioco rappresentazioni complesse che costituiscono il pensiero cosciente e il ragionamento astratto[13].
Non c’è dubbio che cronologicamente la cognizione nonconscia si sia evoluta prima, e che la coscienza sia stata edificata sulle sue fondamenta; fra le due esiste comunque una vastissima connettività incrociata, attraverso quelle che Edelman chiama ‘connessioni rientranti’ e altri meccanismi. Eppure la limitata capacità della coscienza di elaborare informazioni, dovuta sia alla ristrettezza del suo campo di attenzione, sia alle sue procedure relativamente lente, lascia pensare che la cognizione nonconscia continui ad avere un ruolo significativo nel riconoscimento di regolarità nell’ambiente circostante, nell’elaborazione di indizi emotivi nei volti e nelle posture[14], nell’estrazione di inferenze da correlazioni complesse tra variabili, e nell’influenzare disposizioni e obbiettivi comportamentali e affettivi.
Un altro aspetto importante di questa ricerca è che il nonconscio cognitivo non ha solamente la funzione di inoltrare informazioni alla coscienza, ma ha anche quella di non inviare informazioni non rilevanti rispetto alla situazione: se così non fosse, la coscienza verrebbe immediatamente sopraffatta dalle informazioni. Dresp-Langley osserva: “La rappresentazione nonconscia mira a ridurre la complessità dell’elaborazione conscia. Permette al cervello di scegliere quali, tra le nozioni acquisite da tutto ciò che avviene all’interno e all’esterno, sono necessarie per produrre un’esperienza cosciente dotata di senso”; e riassume:
Una parte rilevante delle decisioni prese da una persona nel corso della giornata avvengono senza che l’individuo abbia piena consapevolezza di ciò che accade, di cosa sta effettivamente facendo e perché. Inoltre, le decisioni e azioni basate sul cosiddetto intuito sono frequentemente tempestive e appropriate, e riflettono la stupefacente capacità del cervello di sfruttare le rappresentazioni nonconsce per l’azione cosciente, efficacemente e senza sforzo[15].
In breve, l’elaborazione di informazioni del nonconscio cognitivo è necessaria: senza di essa, la coscienza non potrebbe funzionare efficacemente.
[1] Sid Kouider, Stanislas Dehaene, Levels of Processing during Non-conscious Perception, Op. cit.
[2] Pawel Lewicki, Thomas Hill, Maria Czyzewska, Nonconscious Acquisition of Information, Op. cit., p. 796 [TdT].
[3] Ibid. p. 798.
[4] Ibid. p. 797.
[5] Ibid. pp. 800-1.
[6] Ibid. p. 10.
[7] Stanislas Dehaene, Conscious and Nonconscious Processes: Distinct Forms of Evidence Accumulation in «Séminaire Poincaré» vol. XII, 2009, pp. 89-114; www.bourbaphy.fr/dehaene.pdf
[8] Malcolm Gladwell, In un batter di ciglia: il potere segreto del pensiero intuitivo, Mondadori, Milano 2005.
[9] Stanislas Dehaene, Claire Sergent, Jean-Pierre Changeux, A Neuronal Network Model Linking Subjective Reports and Objective Physiological Data during Conscious Perception in «Proceedings of the National Academy of Sciences USA» n. 100, 2003, p. 8520.
[10] Sid Kouider, Stanislas Dehaene, Levels of Processing during Non-conscious Perception, Op. cit.
[11] Stanislas Dehaene, Conscious and Nonconscious Processes, Op. cit., p. 101. Corsivo dell’autrice.
[12] Ibid. p. 102.
[13] Birgitta Dresp-Langley, Why the Brain Knows More Than We Do: Non-Conscious Representations and Their Role in the Construction of Conscious Experience in «Brain Sciences» vol. 2 n. 1, 2012, p. 1 [TdT].
[14] Marco Tamietto, Beatrice de Gelder, Neural Bases of the Non-conscious Perception of Emotional Signals in «Nature Reviews» n. 11, 2010.
[15] Birgitta Dresp-Langley, Why the Brain Knows More Than We Do, Op. cit., p. 7.
L’IMPENSATO. Teoria della cognizione naturale