CAMERATA DOVE SEI?
Camerata dove sei?
No, la domanda non è un appello nostalgico, ma il titolo di un libretto pubblicato nel 1976 e oggi quasi dimenticato. Fu pubblicato da un autore anonimo a spese proprie, il quale decise di firmarsi con lo pseudonimo di Anonimo Nero. La scelta dell’anonimato, oltre a scongiurare eventuali querele e processi, è giustificata dallo stesso autore nella prefazione:
Non per timore, ma perché ha creduto, così facendo, di rappresentare nel modo migliore la grandissima maggioranza degli italiani: quella maggioranza che è passata dal fascismo alla democrazia cercando sempre di conservare il rispetto di se stessa e di restare fedele alla sola cosa che conti, cioè alla Nazione1.
Ebbene qual è il contenuto del libretto, ripubblicato da Gingko nel 2022 e corredato di un altro titolo, altrettanto eloquente: «Il paese dei voltagabbana»? quale può essere oggi il suo significato? qual è il suo valore storico?
Andiamo con ordine. Camerata dove sei? potrebbe essere definita un’antologia del tradimento. Una raccolta di scritti, opinioni, interventi e testimonianze di chi, dopo il 1943, con acrobatica e improbabile capovolta passò da essere fascistissimo a ardentissimo antifascista. Attraverso capitoli agili e affilati, l’autore anonimo ha tratteggiato un impietoso album di famiglia limitandosi a raccogliere le parole di chi «leccò gli stivali a Mussolini e ai gerarchi con uno zelo non richiesto dal regime»2, ritratti di uomini e donne che nel Secondo dopoguerra divennero icone e maître a penser della Repubblica e che ancora oggi troneggiano nel pantheon dei cosiddetti antifascisti.
Naturalmente fra le molte libertà dell’uomo c’è anche quella di cambiare idea. Ma c’è modo e modo di farlo. Quello che emerge nel libro, infatti, non è il ravvedimento di certuni che, esausti dalla guerra, comprendono la necessità della pace e della libertà; è semmai il rantolo di chi, agonizzante, cerca di sopravvivere anche a costo di seppellire per sempre la propria coscienza.
Fra coloro che furono fascisti e poi, magicamente, non lo furono più troviamo i nomi di illustri politici, da Giulio Andreotti a Pietro Ingrao, da Amintore Fanfani a Giovanni Spadolini. È curioso leggere le loro parole negli anni del ventennio, pubblicate su giornali e riviste; parole apologetiche che non risparmiano incursioni belliciste e ammiccamenti alla propaganda razziale. Ma ciò che più colpisce nella raccolta dell’Anonimo Nero sono i capitoli dedicati a coloro che, a guerra finita, conquistarono il blasone di «intellettuale». Si tratta forse dei capitoli più urticanti perché mostrano come, negli ultimi ottant’anni, il dibattito storico e filosofico circa il fascismo e il Novecento non sia mai stato realmente libero, ma condizionato e orientato in maniera opportunistica da coloro che contribuirono a configurare una certa visione del mondo, quella odierna, rivelatasi tuttavia marcescente in ogni declinazione.
Riportiamo qualche esempio:
Noi, oggi viviamo in un’epoca meravigliosa. La realtà rivoluzionaria in cui ci muoviamo è di tale intensità e profondità ideale da superare, forse, le più orgogliose previsioni, anche dello stesso popolo che, nell’azione, è consapevole, e però filosofo, in grado estremo: il tedesco, naturalmente3.
Chi scrisse queste parole nel 1940, lodando Mussolini per la politica antiborghese e la «estetica del carro armato», non fu Giovanni Gentile né Filippo Tommaso Marinetti. Fu invece Galvano Della Volpe, dal 1945 meglio conosciuto come filosofo marxista di assoluto primo piano accademico.
Di altro genere ma analogo per contraddizione il lascito di Renato Guttuso, pittore di riferimento del Partito Comunista Italiano, nel quale militò fino a diventare senatore dal 1976 al 1983. Il pittore antifascista per antonomasia, dunque, nel 1965 pubblicò un disegno per propagandare la marcia della pace organizzata per contrastare la politica statunitense del Vietnam. Fino a qui nulla di strano, per un pittore comunista. Il problema però sta nel fatto che quel disegno Guttuso lo aveva già stampato nel 1941 sulla rivista fascista Documento, per illustrare e appoggiare «gli sbarchi nazifascisti in territori occupati»4. Nello stesso anno, questa volta sul Primato, Guttuso illustrò invece la copertina della rivista dedicata alla «mitizzazione dei paracadutisti», mentre nel 1942 vinse uno dei premi artistici indetti dal regime, il Premio Bergamo, con il quadro La crocifissione. Un curriculum perlomeno ambiguo, per un pittore e senatore del Pci.
Per quanto riguarda il mondo del cinema è interessante leggere i commenti del progressista Michelangelo Antonioni sul Corriere Padano nel 1935. Quando, chiamato a recensire la cinematografia fascista, scrisse:
Codesta cinematografia programmata sarà un’arma potentissima di propaganda che agirà in profondità sull’anima del popolo e sarà per Fascismo [la F maiuscola è dell’Antonioni! ndr] un mezzo efficacissimo per affermarsi in tutto il mondo, in ciò che esso ha di più essenziale e di più insostituibile5.
Incredibile. O meglio, non credibile.
Ma uno dei capitoli più tragicamente divertenti riporta estratti come questi:
Dirti che ti ubbidiremo, più di sempre, che ci hai tutti nel pugno, duri e compatti e ci puoi scagliare a far breccia o a frangere dove tu vuoi, dirti che siamo strumento del tuo lavoro che non ha fine e non ha confine, dirti che la fede è più cieca che mai in te solo, dirti che la vita più di sempre ci appare una cosa appena degna (l’offrirti, dirti che ci conquisti con uno sguardo, con un segno, con una parola, non è retorica e tu leggilo negli occhi, tu che sai scrutare anche il mistero delle coscienze6.
Il destinatario di queste parole, naturalmente, è Benito Mussolini. L’articolo, intitolato Duce principe di giovinezza e pubblicato su La Sentinella Adriatica nel 1942, è firmato dal piemontese Davide Lajolo, nell’ambiente partigiano noto con il nome di battaglia Ulisse, ovviamente prima di diventare direttore de l’Unità e Deputato della Repubblica.
Insomma, la lista delle banderuole e dei voltagabbana è lunga, come probabilmente in gran parte dell’età moderna. Tuttavia, per un italiano che è figlio dell’egemonia culturale del Secondo dopoguerra, è importante rileggere queste pagine con attenzione, per comprendere come l’attuale mainstream, quello che riconduce qualsiasi dissenso a un imprecisato e ondivago fascismo, sia invero radicato nell’ipocrisia di coloro che il fascismo lo hanno applaudito, blandito e infine scaricato per salvare la pelle e il portafoglio. Ciò significa che la sensibilità politica dei nostri giorni è stata costruita e orientata in maniera artata, bieca, manipolatoria. Perché non può esserci né autentica cultura né autentico pensiero nell’oblio della storia e della memoria, come del resto non può esserci verità nella menzogna.
Inoltre riappropriarsi della storia e, nel caso, fare luce sulla meschinità dei vincitori è anche un modo per cogliere le sfumature dei fatti, per educare lo studio alla ragionevolezza. Ma anche per restituire l’onore delle armi ai vinti, ripristinando quel senso di carità che spetta agli uomini.
No, non si tratta di apologia nostalgica. Si tratta di riconsiderare gli eventi e i protagonisti di un’importante stagione storica per cogliere la radice delle contraddizioni logiche, filosofiche, economiche e culturali che hanno ammalato e ancora ammalano il pensiero, la critica, il coraggio e la dignità del nostro Paese.
Perché cambiare idea è sempre lecito. Ma abdicare alla propria coscienza per interessi o opportunismo, invece, non lo è mai.
1 Anonimo Nero, Il paese dei voltagabbana. Camerata dove sei?, Gingko Edizioni, Verona, 2022, p. 15.
2 Ivi, p. 14.
3 Ivi, p. 71.
4 Ivi, p. 121.
5 Ivi, p. 27.
6 Ivi, p. 137.
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Bella recensione, complimenti.
Libro assolutamente necessario per comprendere lo “stile italiota” di cui andiamo famosi nei libri di Storia degli “Alleati”. Da considerare una post-fazione dedicata alla Meloni ed ai Fardelli d’Italia.