CANTINO NELL’ARENA

Nell’articolo di seguito vengono riportati i commenti di Davide Cantino in risposta a eddymanciox, in una discussione originata dalla recensione del libro di Cantino Ontologia e Meontologia (qui), in quanto lo spazio predisposto al di sotto di tale recensione non era sufficiente a contenerli, i commenti, eccedendo questi per quantità e mole così da essere di disagevole consultazione. Motivo per cui gli è stato, invece, appunto dedicato lo spazio di quest’articolo.
eddymanciox :
Si dica filosofo chiunque parli con la pretesa di cogliere qualche realtà oggettiva, assegnando significati reali ai nomi che nel linguaggio compaiono. In tale circostanza si è filosofi.
Tuttavia il filosofo si distingue come tale solo nominalmente, poiché identico e diverso sono identici.E così anche il DESISTENZIALISMO non può che farsi nome. Circa i suoi propositi CANTINO nell’Arena discuta. Quella, l’agonia delle filosofie, è così nominata per farsi battaglia.
E che vinca la battaglia!Firmato: un PARMENIDISTA VOLGARE.
Cantino :
Benissimo. Cogliere qualche realtà oggettiva? La realtà più oggettiva è l’ONTALGIA (o ONTOSALGIA): l’angoscia esistenziale; potremmo cogliere anche la sofferenza fisica (che non è poca)…
ONTOLOGIA e ONTALGIA sono tutt’uno, caro PARMENIDISTA VOLGARE. Il DESISTENZIALSMO si fa voce, più che nome – per quanto chi si fa voce si fa anche parola – dell’ALLERGIA umana per l’ESSERE IN VITA, cioè per l’ESISTERE.
Quanto all’agonia delle filosofie, questa è implicita nella DESISTENZA: il pensiero è un orpello dell’esistere con il quale l’uomo si gingilla; ma un intero sistema filosofico, per quanto arguto e profondo, non vale un solo secondo di angoscia esistenziale.
I filosofi si divertono a battagliare con i pensieri, a contrapporre un sistema all’altro, ma questo è un AGONE interno al SISTEMA stesso dell’esistenza; il problema è l’uscita dal SISTEMA esistenziale, al di fuori del quale qualsiasi pensiero, qualsiasi filosofia perde ogni valore.
L’ONTALGIA umana non ha bisogno di essere nominata dacché essa è semplicemente ed immediatamente provata da chi esiste nella modalità umana: a che tu nomini? lo stai già provando! a che vale, il nominarlo?
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La malattia mortale
…il tormento della disperazione è proprio non poter morire. Perciò somiglia più allo stato del moribondo quando si torce nella lotta con la morte e non può morire. Quindi cadere nella malattia mortale è non poter morire, ma non come se ci fosse la speranza della vita, anzi, l’assenza di ogni speranza significa qui che non c’è nemmeno l’ultima speranza, quella della morte. Quando il maggior pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando si conosce il pericolo ancora più terribile, si spera nella morte. Quando il pericolo è così grande che la morte è divenuta la speranza, la disperazione è l’assenza della speranza di poter morire.
In quest’ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione tormentosa, quella malattia nell’io di morire eternamente, di morire eppure di non morire, di morire la morte. Perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, provare vivendo il morire; e poter vivere in questo stato per un solo momento vuol dire dover vivere in eterno. Se un uomo potesse morire di disperazione come si muore di una malattia, l’eterno in lui, l’io, dovrebbe morire nello stesso senso in cui il corpo muore della malattia. Ma questo è impossibile: il morire della disperazione si trasforma continuamente in un vivere. Il disperato non può morire; «come il pugnale non può uccidere i pensieri», così la disperazione non può distruggere l’eterno, l’io che sta alla base della disperazione, «il cui verme non muore, il cui fuoco non si spegne». Però la disperazione è un’autodistruzione, ma un’autodistruzione impotente che non è capace di fare ciò che essa stessa vuole. Ciò che vuole è distruggere se stessa, il che non è capace di fare; o quest’impotenza è una nuova forma di autodistruzione nella quale la disperazione si eleva a potenza. Questo è il dolore ardente, il bruciore gelido nella disperazione, che rode e consuma, continuamente rivolto verso l’interno, e che si addentra sempre di più in un’autodistruzione impotente. Lungi dall’essere un conforto per il disperato, il fatto che la disperazione non lo distrugge è piuttosto il contrario; quel conforto è proprio il suo tormento, è ciò che mantiene in vita il dolore che rode e la vita nel dolore; infatti, appunto per questo egli non si è disperato, ma si dispera: perché non può distruggere se stesso, non può liberarsi di se stesso, non può annientarsi. Questa è la formula per elevare a potenza la disperazione, per indicare la febbre che sale nella malattia dell’io.
[Sören Kierkegaard: la malattia mortale – Newton Compton, Milano 1976 – Traduzione di Meta Corssen].
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PROCREATIO STAT PRO CREATIONE
CREATOR NIHILUM HORRENS CREAT,
CREATURA NEMINEM ABHORRENS PROCREAT.
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- DICITUR
Si dica filosofo chiunque parli con la pretesa di cogliere qualche realtà oggettiva, assegnando significati reali ai nomi che nel linguaggio compaiono. In tale circostanza si è filosofi.
- DICO
Alla luce di NOMINA SUNT CONSEQUENTIA RERUM io dico che la RES esistenziale immediatamente percepita è l’ONTALGIA; i nomi che si danno a questa RES non importano: ciò che conta è eliminare la RES, perché se ci limitiamo a giocare con i nomi di questa RES compiamo un misfatto ideologico: cioè filosofiamo.
Non so se mi sono spiegato. Per quanto io ritenga il filosofare la più alta attività dell’essere umano, ritengo anche che se il filosofare non giunge alla soluzione della RES non giunge al suo scopo principale e più importante.
Le filosofie sono come tante vetrine in una lunghissima via; ma siccome questa via è VIA CRUCIS, le vetrine finiscono col diventare STAZIONI proibitive.
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Grassettature e ri-editing di eddymanciox.
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