DELL’IRONIA E DEL NICHILISMO
Un inciampo esistenziale. Pensavamo che la realtà potesse funzionare esattamente come le nostre teorie prospettavano – invece ci ha smentito un’altra volta. Pensavamo che la nostra teoria fosse accettata, invece non troviamo nessuno a cui comunicarla. Cose che capitano – si dice –, ma io aggiungerei che esse capitano dall’inizio dell’esistenza umana. L’assurdo, la dimensione per cui si insegue costantemente un ordine che viene sovvertito, assieme alle aspettative che esso porta con sé, ci è ben familiare, sin dalla prima notte dei tempi, dove il concetto di notte stessa costituiva, forse, un primo passo nella rottura di una qualsivoglia logica. E dunque siamo sempre inciampati costantemente nelle nostre previsioni e teorie, e continuiamo a farlo.
Spinoza ci diceva che il conatus, ovvero la volontà di reagire e di conservarci dinnanzi alle intemperie che la vita ci pone, si identificava con la nostra razionalità, scevra da qualsiasi contenuto empirico, la quale rappresenta Dio. Nietzsche però allunga la gamba per farci scivolare giù da una scalinata piuttosto lunga, sulla quale continuiamo ancora a sbattere, in questo preciso istante. Ma in questo cadere, che ormai è inseparabile dalla condizione occidentale, che cosa ci fa sopportare ciò? Che cosa ci fa rialzare e inciampare costantemente di nuovo, ripetendo questa sorta di assurdo tragico che caratterizza da sempre l’essere umano? Forse, non vi è un’entità metafisica, o una qualche razionalità scesa da chissà dove, ma vi è una consolazione.
Nel nostro cadere noi ridiamo, successivamente, e ci diciamo che l’inciampo di qualche filosofo tedesco piuttosto pessimista non era poi chissà cosa, ignari del fatto che ora vi sarà qualcun altro a tenderci il prossimo sgambetto. Troviamo difatti sempre qualcosa di ironico, anche laddove il baratro delle peggiori ipotesi sembra profilarsi. Ridiamo sopra aspetti orribili. Woody Allen, per esempio, ride sopra l’antisemitismo e la mancanza di senso nelle nostre azioni, dandoci rappresentazioni che ci rendono sopportabile l’inferno – attimi in cui veniamo costantemente rapiti da qualche Beatrice, nonostante siamo ancora nell’inferno. Rappresentazioni con cui noi combattiamo, e che costituiscono la cura che possiamo avere nei confronti di qualsiasi mancanza di senso.
L’assurdità dunque – ecco la vera madre dell’ironia – ci ha costantemente punto con il suo forcone, sino a quando noi non abbiamo, con armi rappresentative, saputo escogitare questo tranello, questa farsa entro la quale possiamo andare avanti, continuare ad inciampare, e non buttarci giù dalla tromba delle scale da cui siamo rotolati. Cioran la proponeva come un rimedio ai nostri mali, difatti non a caso sembra essere una prospettiva condivisa da più autori esistenzialisti. Kierkegaard ne fece uno studio su quella finta ignoranza di Socrate, atta a smascherare il volto presuntuoso della Grecia che già credeva di sapere, Schopenhauer anche non ne fu di meno, in quanto nei Parerga und Paralipomena prospetta un’alternativa all’ascesi radicale, mostrando come vi sia una saggezza mondana da perseguire – in passi altamente ironici. Nietzsche, dopo averci fatto rotolare giù dalle scale, ci dice come, nella nostra discesa verso il fondo, dobbiamo trovare il giullare in noi stessi.
Quindi essa ci rivela la sua natura da coping mechanism, ovvero da meccanismo di sopportazione, nelle sue forme più varie.
Ma se guardiamo ben attentamente alla sua struttura, notiamo che non è un mero oppiaceo pronto a presentarci la realtà più dura di prima, ma in realtà è un processo di metabolizzazione. Non a caso non vi è nessuna fuga dall’esistente: nell’ironia non fuggo da ciò che è reale, ma lo rappresento nella sua assurdità – nella sua realtà più intima – accettando e ridendo di me, e della rappresentazione che ne ho avuto. Insomma, non è la consolazione degli animi più duri, ma è l’accettazione, il percorso entro il quale noi metabolizziamo la vita nella sua tragicità elevata. Non è nemmeno un atteggiamento di distacco o di qualche volo pindarico sopra il mondo, per il semplice fatto che noi stiamo ridendo del nostro nemico – lo confrontiamo direttamente, esso ha una presenza attiva nella rappresentazione ironica.
Siamo tra amici, ognuno rimarca i lati negativi dell’altro, si ci fa battute, anche scorrette, l’uno con l’altro. Uno diviene il diavolo dell’assurdo che punzecchia l’altro in un continuo botta e risposta, che si esaurisce con il riso. Cos’è questa se non ironia atta a rendere sopportabile la volontà altrui? Il diavolo che prima ci inseguiva ora si trasforma in un compagno di giochi, trasformando il dolore provato in un piacere nuovo.
Se vogliamo tuttavia guardare alla radice di tale ironia, possiamo notare come essa ha un contenuto prevalentemente rappresentativo. Deriva di certo, come affermato in precedenza, dall’esperienza dell’assurdo, ma bisogna necessariamente trovare come l’essere umano dipinge i muri della sua cella delle torture, come possa far questo nonostante sia legato al tavolo di stiramento della realtà.
Centrale è l’arte. L’istinto artistico difatti ci permette di subire le torture più atroci dell’assurdo, facendoci provare fascinazione per il boia, ma facendo sì di renderlo uno dei comici più grandi di tutti i tempi.
Dunque né l’ascesi, né il fatto di abbracciare la volontà di potenza ci potranno salvare dall’assurdo che in ogni momento ci attanaglia, ma solamente l’arte, con la sua accezione ironica. Certo, è temporanea, esattamente come affermato da Schopenhauer, ma ha in sé qualcosa di eterno, e tale non è solo la metabolizzazione della tragicità dell’esistenza, l’unica cosa vera ed eterna, se così si può dire, ma è anche il fatto che essa inevitabilmente ritornerà a costruire l’impalcatura del teatro vitale, trasformando la tragedia in tragicomico.
Dunque seppur essa non è eterna nel suo modo di porsi (non potrò costantemente provare ironia, altrimenti nell’eccesso diventerei un cretino) lo è in ciò a cui essa mira. E fortunatamente non vi è redenzione eterna in tutto ciò! Pensiamo quanto miserabile dovrebbe essere la nostra vita qualora qualunque aspetto tragico fosse rimosso: la storia, l’arte e i sentimenti che più ci rendono umani cadrebbero in un vuoto senza risoluzione, tutto si fermerebbe al regno animale, non dotandoci della possibilità di modellare quel carattere celato nel tragico blocco di marmo che si rivela essere l’esistenza.
Eternamente l’assurdo ci si presenterà dinnanzi, ed eternamente l’arte, creando l’ironia, ci darà la giusta redenzione, in questo equilibrio che ci fa stare a due passi dal terrore, sullo strapiombo della risoluzione.
@ILLUS. by GABRIELE DEMARCHIS, 2024