IDENTITÀ E RIMPIAZZO
Recensione del film “S Club allo specchio” (Seeing Double), 2003, regia di Nigel Dick.
Imperdibile lungometraggio prodotto dalla Columbia che narra delle vicende di quanto rimane dell’S Club 7, gruppo musicale pop inglese creato da Simon Fueller, già padre delle Spice Girls.
Il gruppo di 6 componenti, orfano di Paul Cattermole, ma con ancora Jo O’Meara, Tina Barrett e Rachel Stevens, trova nuova abbondante compagnia quando uno scienziato pazzo, insediatosi in un castello medievale adibito a laboratorio, clona la band (e molte altre popstar) con l’intento di controllare il mondo.
Secondo costui, infatti, “il futuro sta nella musica” che è “la sottile influenza che capta le menti e i cuori dei giovani”. Quindi val la pena investire ingenti somme e tecnologie d’avanguardia (perché i giovani sono il futuro…)
(Lo scienziato, Victor, tuttavia, non si avvede di come avrebbe potuto risparmiare almeno un po’ utilizzando una proiezione olografica in stile Ashley Eternal (Miley Cirus in Black Mirror, stagione 5, Rachel Jack and Ashley too) o inventandosi un cantante virtuale come tha Supreme. O forse è un inguaribile transumanista romantico.)
I 6 componenti dell’S Club
I 6 cloni evidentemente servono da rimpiazzo, in quanto gli orginali sono indisciplinati: non spendono abbastanza tempo a provare i balletti, hanno anche altri interessi oltre al lavoro e sono disordinati nel mangiare.
A mali estremi, estremi rimedi… Lo scienziato (David Gant) e il perfido manager Alistair (Joseph Adams) sostituiscono gli sgraditi umani con docili copie che ben si assoggettino ai loro uffici e che siano metodici e non prolissi nel firmare autografi.
Tuttavia i due scordano del tutto di disfarsi del primo gruppo, che non appena si rende conto della situazione, vedendo in TV un live dell’S Club, si organizza nel tentativo di riprendersi la propria identità…
Victor, lo scienziato (David Gant)
Commentario
I protagonisti del film (ossia il gruppo di umani originali non clonati) si preoccupano, come sopra scritto, di recuperare la propria identità; e cioè il proprio ruolo.
Difatti non paiono troppo sconvolti della presenza di corpi del tutto simili a quelli di ognuno di loro in giro per il pianeta, ma, piuttosto, del fatto che questi gli abbiano fregato il posto. A dimostrazione di ciò sia Hannah Spearritt sia Rachel Stevens al loro primo incontro con i propri doppi se ne burlano prima di tramortirli.
Ciò non significa che il gruppo di umani malgiudichi il gruppo di cloni: quelli, i cloni, sono colpevoli solo dell’ignoranza riguardo alla propria genesi e assoggettati al giogo di Alistair. Non a caso si riscattano appena vengono edotti dei fatti dagli originali con convincenti argomentazioni (l’assenza dell’ombelico nei corpi clonati), aiutando i buoni. (Nondimeno anche lo scienziato è cattivo non per essenza, ma per il fatto che le popstar cui mandava numerose lettere non gli avessero mai risposto… e da cosa nasce cosa).
Evidentemente tutti i personaggi che figurano nel film sono piuttosto disincantati riguardo alla questione della propria ipseità e non hanno interesse a rivendicarla quale realtà esclusiva, bensì sono persuasi della realtà della vicenda che vivono, che li supera trascendendo i limiti delle loro menti. (La Realtà (Natura) ingloba sotto di sé le realtà, che altro non sono che Suoi attributi).
Difatti la ricerca e la conservazione dell’identità del presunto io è un discorso che non si costituisce altrimenti se non come avviene per i cloni, pressapoco. Questi vengono mandati a letto ogni sera con delle cuffie che im-pongono gli attributi essenziali di ogni membro della band, in modo, nel loro caso, che questi non si intersechino tra loro, confondesi, rendendo meno definiti e riconoscibili i personaggi che com-pongono.
Ciò similmente a quanto avviene in un altro film di Nigel Dick, 2gether (2000), in cui Bob Buss (Alan Blumenfeld) cambia il colore preferito di Chad (Noah Bastian) perché non si sovrap-ponga con il core preferito di Evan (Jerry O’Keef), facendoglielo ripetere durante le prove dei balletti. Bob è della vecchia scuola, i metodi tecnologici di Victor ne sono invece un’evoluzione. La macchina congegnata dallo scienziato è uno sclerotizzatore di identità.
L’S Club (3 cloni e 3 umani) nello sclerotizzatore di identità
I cloni sono stati educati in vista della più servile efficienza agli scopi dello scienziato e non hanno sviluppato differenziazioni caratteriali oltre a quelle superficiali da vendere ai fan e nemmeno masticano di distinzioni di genere e sessualità come si può apprezzare nella esilarante doppia scena della doccia.
Per risparmiare l’acqua, infatti, la band clone fa anche docce di gruppo senza eccitazioni, pudori o imbarazzi. A differenza degli umani che, abituati alle docce singole (del singolo individuo o genere), reagiscono alla promiscuità avvertendone la novità (relativa).
(A tal proposito vi è da aggiungere che Jon Lee umano non riesce a spogliarsi di fronte agli altri (cloni e umani), mentre Bradley McIntosh umano pare trovarsi piuttosto a suo agio sotto la doccia con Rachel e Hannah cloni, ma non con Jon Lee clone…)
Bradley McIntosh umano scappa per non fare la doccia con Jon Lee clone
I corpi (umani), il nucleo tematico attorno al quale ruota gran parte del film. Qui li vediamo (parzialmente inquadrati) come mamma e lo scienziato li hanno fatti.
Ma cos’è un corpo? Come si relaziona alla mente? L’io è nel corpo e/o nella mente?
“La mente (ψυχή (psyché)) è in certo modo gli enti” (Aristotele). Gli enti che appaiono nella mente, tra cui i corpi (“mio” e “di altri”), sono rappresentazioni. L’autore di queste è l’intelletto (Νοῦς (NOUS)); secondo lo Stagirita, poi, l’intelletto sarebbe anche la forma del corpo, in potenza.
Ciò viene asserito probabilmente perché il corpo non dà mostra di sé interamente. E infatti chi può dire di essere in presenza della totalità del proprio corpo?
A meno che assuma che il mio corpo adesso non è il mio corpo di un adesso prossimo, dovrò assumere che “il mio corpo” ha un’estensione che trascende il presente. Poiché quello, il mio corpo, è un oggetto che occupa sì uno spazio, ma anche un tempo.
E, in tale prospettiva, si nota che ciò che è noto (presente) del mio corpo è solo una porzione spazio-temporale di quello. Il mio corpo si estende da quando nasco a quando muoio, è un oggetto tetra-dimensionale, almeno.
A sua volta questa porzione di spazio-tempo (quasi interamente trascendentale dal mio punto di vista) che io chiamo “mio corpo” è astratta dal resto (la Natura) solo nominalmente, perlomeno per prudenza.
Non si ha esperienza della distinzione netta tra la porzione di mio corpo presente e il resto di ciò che appare; né si ha esperienza della distinzione tra ciò che è presente e ciò che non è presente. Né si ha esperienza della distinzione, Tutto appare in continuità. In quella che, per esempio, Kant chiama unità dell’esperienza.
Il mio corpo dunque è un oggetto piuttosto complesso ed esteso, che varrebbe la pena chiamare evento. Evento piuttosto che processo, sempre per prudenza se, come convenzionalmente si assume, processo significa evento attraversato da potenzialità, siccome di questa (la potenzialità) non si ha esperienza, essendo quella (l’esperienza), per definizione, atto.
Se così (non) definito il mio corpo risulta troppo esteso perché la parola “corpo” se ne possa servire, ebbene ciò rivela che la volontà di definire sottende una logica pragmatica piuttosto che teoretica, la quale, invece, incoccia nell’impossibilità di definire, poiché impossibilitata a testimoniare della realtà della distinzione di cui deve gioco forza servirsi a tale scopo (definire).
E, difatti, se contrariamente a quanto suggerito dall’esperienza si vuole tentare di definire realmente, non è il proprio corpo che solitamente, in linea con il sapere tradizionale, si tenta di definire e con cui ci si identifica.
La ricerca che si propone, infatti, di determinare l’estensione del mio corpo analizzandolo, non può che fallire, poiché essendo quello analizzabile (scomponibile) rivela immediatamente di non essere atomico (indivisibile). Cioè non sé stesso in sé, ma composto e cioè non una realtà, ma un nome. L’indagine che vorrebbe cercare/trovare una qualche realtà essenziale indiveniente, infatti, si sposta su altro. Che altro non è che il sacro (sacer, separato). (Il tutto dopo aver assunto l’esperienza come diveniente anche se ciò non appare).
Difatti questa ricerca dell’altro si dis-pone in una logica che è costitutivamente la stessa, che si interroghi sull’io o Dio, quali essenza o Essenza, di me o del mondo. Una collezione (non empirica) selettiva ed esclusiva, che (non) vede nel sacro l’in-formatore che tras-forma la Natura.
Nondimeno le questioni sul sacro cadono nelle fratture da esse stesse evocate. Infatti la Natura è di per sé sufficiente. In Essa, si dice, nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma. Che i corpi dell’S club siano stati creati dalla mamma, dallo scienziato o da Simon Fueller è indifferente perché “creare” resta un modo di dire. Tuttavia la Natura per tras-formarsi davvero avrebbe bisogno di uscire da sé stessa, separandosi e sfruttando uno spazio che non è in-formazione, che non è Natura… ma Tutto è Natura. Questa si trasforma, di nuovo, per modo di dire, perché piuttosto è.
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@ILLUS. by PATRICIA MCBEAL, 2020