DALL’ITALIA ALLA FRANCIA, CON RITORNO. Ancora su Merleau-Ponty e sulla fenomenologia

e chiaro nella valle il fiume appare
Leopardi, La quiete dopo la tempesta
«Laudato si’, per nostra sorella fenomenologia», specie nella versione che ne ha dato Merleau-Ponty. E ciò, nella consapevolezza che “fenomenologia” si dice in molti modi, non solo a motivo delle diverse versioni che storicamente ne sono state date, ma anche perché nel pensiero dello stesso Husserl (e cioè del padre fondatore) coesistono diverse accezioni delle idee fondamentali di questo movimento filosofico, come hanno mostrato proprio Merleau-Ponty e, in Italia, Enzo Paci[1].
Così viene fatto di pensare, dopo aver letto il bel articolo di Emilia Bezzo (clicca qui) sul filosofo francese pubblicato su questo sito. L’articolo indica in maniera efficace punti salienti della riflessione sulla corporeità (primo fra tutti, l’esperimento fondamentale da cui il filosofo prende le mosse e cioè quello in cui la mia mano destra tocca quella sinistra nell’atto in cui quest’ultima esplora il mondo ambiente; ne emerge una situazione “chiasmica”, in cui il toccante e il toccato si scambiano i ruoli e si confondono)[2]. Inoltre, l’articolo di Emilia richiama, attraverso la distinzione tra bisogno e desiderio, l’importanza assunta dalla Fenomenologia dello spirito hegeliana per il filosofo francese e propone poi un accostamento tra Sartre e Merleau-Ponty.
Ritornando alla confessione di lode che ho posta in apertura, non è importante che ‘il Tu’ del «laudato si’» si riferisca al Dio cristiano o ebraico o islamico; l’essenziale è semmai che questa confessione segnali “lo spazio del Tu assoluto” o “il fenomeno del Tu”, in modo che la stessa fenomenologia, partendo dall’analisi dei modi in cui il mondo e l’altra persona si danno alla coscienza dell’uomo, si apra poi da ultimo a questioni di ontologia o di meta-fisica, secondo la traiettoria indicata dal pensiero di Lévinas[3].
Vorrei proporre a questo punto quattro brevi spunti di riflessione sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, in modo da suggerire altrettanti motivi sia della possibile attualità sia del fascino di questa corrente di pensiero.
1) Tra i testi in cui il filosofo francese presenta la sua versione della fenomenologia, uno dei più significativi (e affascinanti dal punto di vista letterario) è la Premessa della sua opera fondamentale, la Fenomenologia della percezione (uscita due anni dopo la pubblicazione de L’essere e il nulla di Sartre). In questa Premessa Merleau-Ponty scrive che la fenomenologia non deve essere intesa soltanto come una scienza descrittiva di essenze, ma che essa lega queste essenze all’esistenza o fatticità dell’uomo oppure, come anche si potrebbe dire, che riconduce l’eterno al tempo. In altre parole, la fenomenologia riporta le essenze alla concreta situazione naturale, sociale e storica in cui l’uomo è immerso, prima che si instauri la distinzione tra Io e mondo (tra coscienza e realtà) oppure quella sartriana tra per sé e in sé[4].
Merleau-Ponty mostra poi, sempre nella sua Premessa, come la fenomenologia, prima ancora di essere un bagaglio di idee o di temi, rappresenti soprattutto una lezione di metodo. Infatti, essa invita a ritornare alle cose stesse e ciò, immer wieder (“sempre da capo”), così come insegnava Paci. La fenomenologia costituisce dunque uno stile di fare filosofia e di vita (una testimonianza di un eros inquieto, nel senso socratico del termine). Essa è l’invito permanente a considerare i linguaggi della scienza e della filosofia in maniera non dogmatica, a scorgere come questi linguaggi si costituiscano, ossia a coglierli in una maniera per così dire ‘fluidificata’, a partire dalla loro genesi da una coscienza umana non ancora costituitasi in un soggetto sovrano dotato di strumenti trascendentali, ma aperta e intrecciata al mondo. In altre parole, una coscienza che non si è ancora ritirata in una sorta di cittadella interiore (il ‘suo’ Io che idealisticamente pone l’oggetto), ma in cui il mondo si percepisce. Una coscienza cioè che invade il mondo (come scriveva Sartre) ma che al tempo stesso ne è invasa. Da questo punto di vista della fenomenologia intesa come metodo, Merleau-Ponty scrive che essa
esiste come movimento ancor prima di essere giunta a un’intera coscienza filosofica. Essa è in cammino da molto tempo, i suoi discepoli la ritrovano ovunque, certamente in Hegel e in Kierkegaard, ma anche in Marx, Nietzsche e Freud[5].
Questa idea di una fenomenologia «in cammino» restituisce l’esperienza fondamentale con cui alcuni intellettuali francesi accoglievano, tra gli anni ’20 e ’30 del ‘900, il movimento filosofico iniziato da Husserl, vedendolo come quello finalmente in grado di superare le loro inquietudini. Ai loro occhi, infatti, esso indicava la possibilità di una sorta di terza via tra l’idealismo (con il primato del soggetto trascendentale) e lo scientismo positivistico (con quello dell’oggetto o della realtà). Da questo punto di vista, basterà richiamare il noto episodio, descritto da Simone de Beauvoir ne L’età forte, in cui Raymond Aron, amico allora di Sartre e della sua compagna, parlava con entusiasmo dell’esistenza nel mondo tedesco di un movimento filosofico finalmente in grado di descrivere il bicchiere di aperitivo che i tre seduti a un café avevano di fronte a loro[6].
2) Vorrei ora mettere in risalto due ambiti di applicazione della fenomenologia. Il primo è relativo alla considerazione degli oggetti artistici e il secondo, alla rilettura di problemi specifici della storia della gnoseologia e dell’etica filosofiche[7].
In ambito estetico: la fenomenologia invita a considerare l’arte come quell’operazione che fa vedere i modi in cui gli oggetti del mondo naturale, umano e sociale si mostrano all’uomo e cioè come provengano da una dimensione ontologica che è anteriore a questi stessi oggetti (come la luce lo è rispetto alle cose che vengono illuminate) e come in questa stessa dimensione essi si spengano. E ciò, allo stesso modo in cui, nel linguaggio musicale, suoni e silenzio appaiono strettamente intrecciati[8].
Le opere d’arte possono pertanto essere considerate come meta-percettive: non riproducono oggetti già costituiti, ma invitano a considerare le concrete modalità percettive nel loro farsi e disfarsi. Il sabato del villaggio non è innanzitutto una meditazione pessimistica sulla precarietà del piacere; questa poesia descrive il modo in cui degli oggetti sonori e visivi del mondo naturale e umano si danno nella loro fragilità. Non è un caso che emblemi ricorrenti del “pensiero poetante” di Leopardi siano rappresentati da situazioni in cui un canto si spegne nel silenzio o in cui un’immagine o una figura trascolora[9]. Lo Zibaldone contiene poi, in relazione alla «teoria del piacere», numerosi appunti in cui Leopardi descrive come «l’infinito» si mostri alla nostra immaginazione a partire da un ostacolo che delimita il campo percettivo, secondo quella modalità esibita poeticamente nel celebre idillio[10].
Secondo poi l’interpretazione offerta dallo stesso Merleau-Ponty, i quadri di Cézanne contengono degli indici pittorici (ad es., sfasamenti prospettici o nebule di colore) che mostrano un processo percettivo nel suo farsi. Discende di qui l’accanimento percettivo del pittore nel riprodurre ossessivamente uno stesso oggetto e nel cogliere il profilarsi sempre nuovo della struttura geometrica del reale al cambiare delle condizioni di illuminazione e dei punti in cui il cavalletto del pittore si situa[11].
La cava di Bibémus di Cézanne
In ambito gnoseologico: il Commento grande al De anima aristotelico di Averroè presenta la teoria secondo cui vi sarebbe un intelletto materiale unico per tutta l’umanità e cioè una sorta di deposito universale che costituirebbe l’autentico soggetto delle conoscenze universali. Per Averroè, infatti, quando dico che la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180°, non è la mia individualità empirica (di me, come soggetto imprigionato nel tempo e lo spazio) a esprimersi e a essere in gioco, ma un soggetto universale o meta-empirico. Semmai, la mia individualità interviene quando, per raffigurarmi la verità di quell’affermazione, non posso non pensare a un particolare triangolo come caso in cui essa si concretizza (secondo Aristotele e Averroè, il pensiero non si dà mai senza immagini). In questo caso, penserò allora a un triangolo isoscele, ma Pietro, che è un individuo distinto da me, potrà ad esempio pensare al caso di un triangolo rettangolo.
Questa idea di Averroè di un intelletto materiale unico può essere riletta, fenomenologicamente, con l’aiuto della nozione della «carne del mondo» dell’ultimo Merleau-Ponty. Al di qua della distinzione tra soggetto e oggetto, è presente una rete connettiva tra l’uomo e il mondo, in cui interno ed esterno si scambiano i ruoli, prima dell’emergenza di una soggettività e di un Io che conosce sovranamente il mondo. Per il filosofo francese, anche il linguaggio costituisce un esempio di questa rete connettiva impersonale e sovra-individuale.
In ambito etico: si ha impressione che, nella storia della filosofia, il problema della libertà sia stato sempre impostato a cose già fatte e cioè a partire da un soggetto e da un oggetto considerati come già costituiti e opposti l’uno all’altro. Infatti, le soluzioni che a questo problema sono state date oscillano da un lato tra una rivendicazione di una libertà sovrana del soggetto, in grado in ogni momento di auto-decidersi e di riprendersi e, dall’altro, un’affermazione del peso decisivo o addirittura totale (come nel caso del determinismo) di una presunta realtà esterna nei confronti del soggetto. Così come suggerisce invece Merleau-Ponty nel capitolo conclusivo della Fenomenologia, l’opposizione tra una presunta libertà assoluta del soggetto e un condizionamento altrettanto assoluto dell’esterno sull’uomo sembra essere già in ritardo rispetto alle cose stesse. Bisognerebbe semmai considerare la libertà nel suo momento sorgivo e cioè a partire da una situazione in cui oggetto e soggetto sono ancora indistinti[12].
3) L’articolo di Emilia ripropone giustamente la questione del rapporto tra Sartre e Merleau-Ponty. A me sembra che questo discorso vada soprattutto impostato nei termini di un reciproco ‘andare e venire’ tra i due pensatori. Si tratta, in altre parole, non soltanto di riproporre le critiche mosse da Merleau-Ponty al pensiero sartiano (fondamentalmente, l’accusa di muoversi ancora, attraverso la dicotomia di per sé e in sé, nel solco del dualismo di soggetto e oggetto e quella di aver impostato il problema della intersoggettività solo a partire dal per sé), ma anche di far vedere come un dialogo interrotto abbia attraversato, anche al di là della loro rottura, le opere di questi due filosofi.
E’ ciò che viene fatto in un recente numero di aut aut (381, marzo 2019; la rivista fondata, ancora una volta…casualmente, da Paci). Il numero ripropone lo scambio epistolare che nel 1953 ha portato alla rottura tra i due pensatori. Se E. Lisciani-Petrini segnala nel suo articolo «una insanabile divergenza filosofico-politica», F. Caeymaex e G. Cormann evidenziano, in maniera più equilibrata, appunto le «andate e ritorni» che si sono instaurate tra i due pensatori.
4) Le opere di Merleau-Ponty (insieme a testi fondamentali di Husserl) sono state fatte conoscere in Italia, a partire dagli anni ’50 e ‘60, da Enzo Paci. Prima di approdare alla fenomenologia, questo pensatore ha mosso i suoi primi passi in un’atmosfera filosofica costituita da una sorta di interpretazione esistenzialistica o ‘di sinistra’ dell’idealismo di Gentile e Croce. La scoperta di Merleau-Ponty è coincisa, per il filosofo italiano, con un’esigenza di andare oltre le istanze metafisiche del secondo Heidegger, attraverso un recupero della lezione dello Husserl de La crisi delle scienze europee.
Molti tratti accomunano Paci a Merleau-Ponty: l’idea della fenomenologia come stile di vita e vocazione; un dialogo tra le istanze fenomenologiche e quelle sia della nuova scienza sperimentale (la fisica del ‘900, in particolare) sia delle scienze umane (la psicologia, l’antropologia e la storia); la consapevolezza che il pensiero di Husserl sia stato attraversato da interessi e linee evolutive diversi; l’attenzione per il marxismo (il cui fascino, anche oggi, è quello di una filosofia che ‘faccia presa sulle cose’) e, last but not least, la pratica di una scrittura e di uno stile di pensiero in cui la filosofia si mostra non come un’attività accademica, ma come impegno e testimonianza in prima persona del pensatore alle prese con i problemi fondamentali, in una sorta di inquietudine conoscitiva perenne.
In conclusione, nel caso sia di Merleau-Ponty sia di Paci, la stessa attività filosofica viene concepita fenomenologicamente: non una messa in opera di verità già fatte, da prendere o lasciare, ma un’attività che mostri sé stessa nel suo farsi e che conduca per mano il lettore in quelle dimensioni di senso (meta-fisiche o ontologiche) in cui i problemi prendono forma e a cui le soluzioni possono soltanto sempre alludere, senza mai esaurirle.
[1] Il testo che segue, che a volte propone accostamenti bizzarri e che sovente taglia con l’accetta problemi testuali e teoretici complessi, vuole essere una manifestazione di eros filosofico nei confronti di Enzo Paci, il filosofo approdato alla fenomenologia intorno agli anni ’50-’60, dopo aver attraversato diverse fasi (soprattutto, quella dell’esistenzialismo e del relazionismo). Alla fine degli anni ’60, la fenomenologia si coniuga poi nelle sue opere con un originale ripensamento del marxismo. I suoi testi recano ancora, per chi come me non ha potuto sentirlo nella Statale di Milano, le tracce dell’inflessione e della passione della sua voce. O, per dirla come si esprimeva Merleau-Ponty attraverso de Saussure, la sua parole (la sua personale intenzionalità comunicativa) ha saputo dare nuova vita alla langue filosofica (al lessico della tradizione). Tra gli scritti di Paci, segnalo soprattutto questi contributi: la raccolta di studi Dall’esistenzialismo al relazionismo (D’Anna 1957); lo studio Husserl, sempre di nuovo (nella raccolta da lui curata Omaggio a Husserl, Il Saggiatore 1960); quello che forse è il suo libro più bello e appassionato, Diario fenomenologico (Bompiani 1961) e ancora, la Prefazione alla terza edizione italiana (1968) della traduzione italiana de La crisi delle scienze europee di Husserl (Il Saggiatore). Mi scuso fin d’ora con i lettori per la lunghezza e lo stile poco ‘internettiano’ del pezzo.
[2] Il «chiasmo» fa riferimento alla situazione ontologica in cui il soggetto e l’oggetto, l’uomo e il mondo si intrecciano e scambiano i ruoli e cioè quella in cui il mio corpo o «coscienza incarnata» diventa «la carne dell’essere». Questa espressione si ritrova nell’ultima opera incompiuta di Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, tradotta in Italia da Bompiani per volontà di Paci, dopo soli cinque anni dall’uscita postuma della versione francese. La situazione “chiasmica” del corpo toccante-toccato si produce anche nel momento in cui io guardo l’altra persona e il mio sguardo si incrocia con il suo. Questa situazione è quella che interviene quando guardo un quadro con ritratto; essa viene resa fenomenologicamente in opere celebri, come I coniugi Arnolfini di Van Eyck o Las Meninas di Velazquez. Nella Videoteca della Gam di Torino è attualmente in mostra (fino al 27 settembre 2020) un video del 1974 realizzato dall’artista e musicista Giuseppe Chiari, intitolato Spoleto Concert. Una telecamera è fissata su una ristretta porzione della tastiera di un pianoforte, in modo da inquadrare soltanto le mani dell’artista. Queste mani si intrecciano e si sovrappongono, per poi lasciarsi. La musica è prodotta da questo movimento intrecciato che sfiora e tocca i tasti. È un’opera che illustra in maniera efficace l’ontologia dell’’ultimo Merleau-Ponty. Le mani si sovrappongono (come già accadeva nella fenomenologia del corpo proprio) e i tasti ‘consuonano’ con esse, diventando lo sfondo vivente con cui sono a loro volta intrecciate.
Las Meninas di Velázquez
[3] Merleau-Ponty non avrebbe forse approvato questa idea secondo cui la fenomenologia debba avere come esito una meta-fisica (sia pure diversa da quella della tradizione, appunto come nel caso di Lévinas) o anche, come in Leopardi, una me-ontologia (e cioè un sapere silenzioso del nulla). Anche nell’ultima opera di Merleau-Ponty le analisi restano sempre a livello del mondo dell’uomo. Del resto, la maggioranza dei fenomenologi diffida giustamente di ogni discorso su Dio, dal momento che esso deve per forza ridursi a un discorso sul bisogno umano di Dio. Quando faccio fenomenologia della religione, devo “mettere tra parentesi” l’idea che i suoi testi contengano una rivelazione in prima persona della divinità, così come devo accantonare la pretesa della religione di porsi come verità definitiva. Nei termini leopardiani dello Zibaldone, l’infinito che si mostra all’uomo è sempre un «infinito materiale» e l’eterno «sovviene» soltanto all’immaginazione umana.
[4] I fenomeni o essenze di cui si occupa la fenomenologia, non sono “le cose che si manifestano” nella loro individualità, ma “i modi in cui si manifestano” e vengono intenzionate (e cioè colte) dalla coscienza dell’uomo. L’essenza del colore “rosso” è il modo in cui questa estensione di colore mi si presenta distinta dalle altre e cioè il senso con cui mi si impone alla vista (Merleau-Ponty scrive nella Fenomenologia che il movimento della percezione non è quello con cui io percepisco il mondo, ma quello con cui il mondo si percepisce in me). L’essenza del colore “rosso” conosce poi una sua latitudine o ampiezza di sfumature o variazioni, superata la quale ‘quel’ colore trapassa in un altro. Allo stesso modo, il fenomeno della melodia è il modo in cui le note e i silenzi di un brano musicale si intrecciano tra loro, sulla base delle altezze e della dinamica dei suoni; il mio ascolto coglie il permanere dinamico di una melodia anche attraverso le variazioni impresse dal compositore.
Le cose del mondo della mia percezione ‘esterna’ si offrono sempre alla mia coscienza a partire da una certa angolatura (quella del mio corpo proprio o coscienza incarnata) e attraverso facce parziali; ogni cosa del mondo possiede degli strati di senso naturale e umano. Da questo punto di vista, i quadri del cubismo sono meta-percettivi; mostrano in che modo il mondo si costruisce attraverso il farsi della percezione del pittore. Se si considera invece un oggetto più complesso come la religione, “il fenomeno religioso” è il modo in cui le relazioni tra l’uomo, gli altri e l’Altro metafisico o ontologico si esprimono nei testi e negli atti di culto di una determinata religione.
[5] Fenomenologia della percezione, trad. it. a cura di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 16 (la prima edizione italiana di quest’opera, voluta da Paci, è del ’65 per il Saggiatore, la casa editrice fondata da lui).
[6] Ma si legga anche la toccante testimonianza di Paci nel Diario fenomenologico, in cui il filosofo ricorda il suo personale avviamento alla fenomenologia, sotto la guida del suo maestro Antonio Banfi:
Come insegnare la fenomenologia? Come e in che senso è trasmissibile? Certamente molti avvii sono possibili. Ma forse quello che è stato più usato è l’invito alla descrizione. Quando, dopo aver letto senza sufficiente comprensione le Meditazioni cartesiane [di Husserl], nel 1933, ho chiesto a Banfi di aiutarmi, non mi parlò del contenuto di quel libro. Questo fatto è significativo. (…) Banfi disse qualcosa di molto semplice. Eravamo nel suo studio. “Vede questo vaso di fiori? Provi a dire, a descrivere quello che veramente vede”. Io non volevo accettare questa proposta. E riproponevo i problemi tradizionali della filosofia. Ora so molto bene che cosa Banfi voleva dire e so che cosa vuol dire per me (pp. 84-85).
[7] Merleau-Ponty stesso è uno degli esponenti principali di questa estetica fenomenologia.
[8] Nei termini del Leopardi del Cantico: «Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono». E ancora: «Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. (…) Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato nè inteso, si dileguerà e perderassi». L’arte è la descrizione del nascere e morire delle cose. Fenomenologicamente, il suo compito non è quello di riprodurre le cose o di spiegarle («innanzi di essere dichiarato nè inteso»), ma di mostrare il sorgere e venir meno di una dimensione metafisica dell’esistenza. L’espressione «arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale» restituisce appunto una dimensione ambigua della realtà, essa stessa sospesa tra l’essere e il nulla, tra l’eterno e il tempo. Anche la bellezza, che è uno degli oggetti fondamentali dell’arte, è ambigua, in quanto sospesa tra cielo e inferno (come scrive Baudelaire in uno dei suoi Fiori del male) o in quanto al tempo stesso eterna e fragile nella misura in cui si incarna negli esseri umani e naturali (secondo l’esperienza descritta da Freud in Caducità) oppure, ancora, in quanto rinvia a una divinità potente e terribile nella sua indifferenza nei confronti dell’uomo.
Leopardi descrive quest’ultima fenomenologia della bellezza nel momento in cui l’Islandese incontra la Natura: «Ma fattosi più vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta, ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile; di occhi e capelli nerissimi». Si noti come in questa stessa operetta Leopardi abbia poco prima descritta una precisa operazione percettiva e cioè il modo in cui la coscienza dell’uomo intenziona un oggetto smisurato che le si mostra innanzitutto da lontano: «Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra (…) Ma fattosi più da vicino…».
[9] Come ne La sera del dì di festa: «…ed alla tarda notte/ un canto che s’udia per li sentieri/ lontanando morire a poco a poco,/ già similmente mi stringeva il core». O ancora, come nell’inizio di Sopra un bassorilievo antico-sepolcrale: «Dove vai? chi ti chiama/ lunge dai cari tuoi,/ bellissima donzella?».
[10] Se ne rileggano i versi, facendo attenzione ai valori percettivi che essi recano in abbondanza: «…E come il vento/ odo stormir tra queste piante, io quello/ infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno,/ e le morte stagioni, e la presente/ e viva, e il suon di lei». Che cos’è dunque L’infinito? È un’opera d’arte meta-percettiva, che descrive le concrete modalità in cui l’eterno sovviene all’uomo.
[11] Cfr. soprattutto Il dubbio di Cézanne nella raccolta di saggi filosofici e politici del ’48 Senso e non senso (trad. it. a cura di P. Caruso, Il Saggiatore 1961, con Introduzione di Paci).
[12] «C’è un senso autoctono del mondo che si costituisce nel commercio con esso della nostra esistenza incarnata e che forma il terreno di ogni Sinngebund decisoria [e cioè di ogni atto etico individuale]» (p. 563). E ancora: «La nostra libertà non distrugge la nostra situazione, ma si innesta su di essa: in quanto noi viviamo, la nostra situazione è aperta; ciò implica che essa sollecita modi di soluzione privilegiati e in pari tempo che, di per sé stessa, non può procurarne nessuno» (p. 565).
Roberto Gatti, professore e saggista
L’immagine in evidenza è Jan Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434, olio su tavola, cm. 82 × 60, National Gallery, Londra.
Il dipinto nel corpo del testo è Paul Cézanne, La cava di Bibémus, 1898-1900, olio su tela, cm. 65 × 81, Baltimore Museum of Art, Baltimora.
L’opera riportata in nota 2 è Diego Velázquez, Las Meninas, 1656 ca., olio su tela, cm. 318 × 276, Museo del Prado, Madrid.
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