KARL JASPERS: CREAZIONE E COLPA, MEMORIA E RESPONSABILITÀ. IL MITO (PARTE III)

Cosa implica il concetto di creazione? Innanzitutto, l’impossibilità dell’autofondatezza mondana: il mondo non si può fondare su se stesso, non si può trovare la causa della sua origine definitivamente grazie ad una conoscenza intramondana. Ecco perché la scienza è destinata a fallire nei suoi tentativi per trovare l’origine del mondo. Essa si serve di strumenti del mondo, si serve degli oggetti e opera sugli oggetti; anche nel caso in cui la scienza si soffermasse eminentemente su principi primi inoggettivabili, questi ultimi sarebbero adeguatamente oggettivati in una conoscenza che si presenta come universalmente valida, metodica (che include, per esempio, la conoscenza sperimentale), assolutamente cogente nei suoi risultati perché universale nell’intensione e nell’estensione, ovverosia applicabile a tutto e al Tutto e, pertanto, comprensiva e primaria rispetto ad ogni altra conoscenza particolare che partecipa della sua universalità. Essa si serve di strumenti nel mondo perché impossibilitata a trascendere oltre il mondo; nella sua discorsività è perennemente collegata al mondo da cui dipende anche se cerca di allontanarsene affermando la propria supremazia. E ci riesce effettivamente, attraverso la formazione di un mondo tecnicizzato, indicizzato, a misura d’uomo perché antropologicamente plasmato (e non creato; la creazione è atto puramente libero che dà origine al mondo stesso nella sua totalità. Solo Dio può creare. L’uomo può plasmare un mondo all’interno del mondo, un κόσμος all’interno della Welt).
Questo è atteggiamento prometeico, certamente fondamentale, ma insufficiente; come ha ben scritto il filosofo tedesco, l’uomo deve al titano Prometeo
il suo esserci. L’uomo ha quest’esserci perché non s’abbandona solo alla vita come gli animali, ma dà aiuto a se stesso. Solo questo però deve a Prometeo, cioè la capacità di dominare la natura, formarsi il suo ambiente, osare imprese razionali. Invece Prometeo non gli ha dato né l’ordinamento dello Stato, né la moralità, né il diritto, né la salvezza dell’anima, né la pace che si ottiene nella disposizione interna, né religione né filosofia. Egli arrecò all’uomo la sua essenza “prometeica” ma non ciò che l’uomo sarebbe divenuto sulla base di quest’essenza» (Jaspers 1962; trad. it., pp. 619-620).
Ad ogni modo resterà sempre costante, presente, come un’oscurità spaventevole quell’indicibile e intangibile mistero che nessuna tecnica e nessuna scienza, per quanto estese e complesse, potranno mai eliminare: il mistero dell’origine, il mistero della creazione.
La verità del racconto biblico non consiste pertanto nell’evento narrato, nella creazione in sette giorni, ma nel fatto che il mondo abbia bisogno di una creazione esterna al mondo, da cui esso stesso proviene. La verità non è situata tanto nella Rivelazione determinata del Dio unico, onnipotente, creatore al cui volere segue l’effettività del voluto, quanto al rinviare profondo ad un’origine, un fondamento nascosto, che può essere considerato Dio solo in qualità di cifra. Una considerazione tale, ripeto, non deve essere scambiata come discorso puramente negativo e negatore, ma deve trovare il suo senso autentico nell’invito rivolto ad ognuno di noi ad approfondire, ad assumersi come compito il superamento responsabile di ogni verità predeterminata, rivelata direttamente dall’Altissimo che, in breve tempo, si trasformerà inevitabilmente in dogma[1].
Ancora di più il richiamo alla responsabilità permette di comprendere la fecondità dell’idea della creazione: l’uomo non si dà da se stesso. Jaspers istituisce così un interessante confronto con la filosofia buddhista. Centrale nel suo universo è la meditazione, come pratica ascetica nel tentavo di trascendere se stessi interrompendo il ciclo delle rinascite e raggiungendo il momento più elevato nell’illuminazione che trasporta il meditante nell’esser-vuoto, esser-nulla del nirvana. Attraverso la meditazione il soggetto raggiunge un punto di estremo distacco non solo dal mondo, ma anche da se stesso[2]; obiettivo della meditazione è liberazione di sé e liberazione da se stessi. Di contro, per quanto riguarda la filosofia occidentale, i pensieri speculativi, che Jaspers sembrerebbe senza alcun dubbio non equiparare, ma per lo meno ravvicinare, alla pratica orientale, trascendendo ogni formalismo intellettuale, approfondendosi nei rapporti esistenziali alla Trascendenza e esistendo nella lettura della scrittura cifrata, permettono di giungere al vero sé, liberandolo dalle falsità nelle quali è impigliato. E in questo riscoprirsi, in questo destarsi, l’uomo si rende conto di essere libero, libero di agire e da ogni costrizione, ma soprattutto si sa donato a se stesso, in totale dipendenza da ciò da cui è donato, cioè la Trascendenza. La creaturalità dell’uomo, dunque, anziché confermare la supremazia di un Dio personale, ne implica la feconda dipendenza dalla Trascendenza, senza la quale non si potrebbe parlare minimamente di libertà.
Facciamo un passo avanti; a partire dallo statuto di dipendenza come libertà-in, volgiamoci alla prima grande azione commessa dall’uomo nel racconto della creazione: la trasgressione. Essa si intreccia inevitabilmente con la problematica della condition humaine. Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza e già da ora lo ha creato in un certo senso colpevole: il Creatore, plasmandolo sulla propria figura, non ha voluto che l’uomo gli si assoggettasse passivamente, obbedendogli ciecamente, ma in piena coscienza e «chiarezza d’intelletto» (ivi, p. 485). Pertanto, una possibile ribellione era già dai tempi pretemporali della creazione presentita. E tutto ciò perché Dio ha voluto creare l’uomo libero. La colpa, allora, sarebbe indirizzata su due binari differenti, ma paralleli: tanto in un’obbedienza prona, quanto in una ribellione come trasgressione ad un comando divino. Alla questione della colpa come colpevolezza inerisce la tragicità del non-può-essere-così, ma non-può-essere-che-così.
Se adesso portiamo le considerazioni mitiche sul piano strettamente filosofico-speculativo, possiamo trovare la colpa nella costituzione stessa dell’uomo. Ognuno di noi, nella propria vita si trova di fronte a molte possibilità, le quali, però, non possono essere realizzate tutte; la realizzazione possibile è solo una tra le tante. «Realizzazione significa perdita di possibilità. A partire da un’infinità del possibile, l’uomo entra con la sua realizzazione nella finitezza» (ivi, p. 421), fonte di determinazione, delimitazione, ma punto di partenza per ulteriori sviluppi. Qui risuona quella domanda fondamentale che Jaspers formula in questo modo: l’uomo può e vuole «rimanere nella mera possibilità che è infinita ma è anche senza valore perché priva di vera realtà, oppure egli deve e vuole entrare nella vera realtà che è sempre finita?» (ibidem). Qui si aprono alcune possibilità nuove, perché l’uomo tendenzialmente ritiene la vastità infinita delle possibilità preferibile alla limitatezza della singola realizzazione, per quanto poi fruttuosa possa essere. Pericolo maggiore per questo conservatorismo è il totale disimpegno dalla realtà che viene considerata di secondo ordine proprio in virtù della sua limitatezza, ora concepita come prigionia; di contro, la volontà di realizzazione «s’incarica di rinunciare alle altre possibilità e in questo rifiuto diviene colpevole» (ivi, p. 422). Ci troviamo alle prese con la scelta di Paride, di fronte al quale si trovavano una mela d’orata e tre dee…
[1] L’atteggiamento più genuino, credo, di fronte alla riflessione jaspersiana sulle tematiche religiose in senso lato e in senso più ristretto sul confronto, sulla lotta amorosa tra fede filosofica e fede rivelata e Rivelazione, è quello del teologo Heinz Zahrnt, il quale condusse un intenso dialogo con il filosofo di Oldenburg all’alba (1963) della pubblicazione del voluminoso Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung (1962), che così si espresse affermando che la «critica filosofica di Jaspers al cristianesimo raggiunge il suo punto culminante nella protesta contro la pretesa di esclusività della rivelazione cristiana. Si tratta di una protesta appassionata della filosofia in nome della religione»; cfr., K. Jaspers – H. Zahnt, Filosofia e fede nella rivelazione. Un dialogo, Queriniana, Brescia 19892, p. 28.
[2] Parlare di buddhismo è sempre molto complicato data la molteplicità delle scuole e delle sette e delle correnti, nonché le differenze culturali-geografiche (il passaggio dalla Cina al Giappone e prima ancora dall’India alla Cina). Vorrei però riportare, sebbene la scelta non può che risultare arbitraria, una breve storia Zen, nella quale dovrebbe rilucere maggiormente il principio del non-attaccamento (anche se sembrerà l’esatto contrario!):
Il vero miracolo. Quando Bankei predicava nel tempio Ryumon, un prete Shinshu, che credeva nella salvezza ottenuta ripetendo il nome del Buddha dell’Amore, si ingelosì del suo vasto pubblico e volle discutere con lui. Bankei stava parlando allorché comparve il prete, ma questo creò una tale confusione che Bankei si interruppe e domandò che cosa fosse tutto quel baccano. “Il fondatore della nostra setta” si vantò il prete “aveva poteri così miracolosi che stando su una riva del fiume con un pennello in mano riusciva a scrivere attraverso l’aria il sacro nome di Amida su un foglio che un suo assistente reggeva sull’altra riva. Tu puoi fare questa cosa prodigiosa?”. Bankei rispose gaiamente: “Forse questo gioco di prestigio può farlo la tua volpe, ma non è questo il modo dello Zen. Il mio miracolo è che se ho fame mangio, e se ho sete bevo.
Questa e altre 100 storie Zen sono consultabili nella raccolta 101 Storie Zen, N. Senzaki – P. Reps, a cura di, Adelphi, Milano, 201342, n. 80, p. 90.
@ILLUS. by PATRICIA MCBEAL, 2020