L’IMPOSSIBILE VERITÀ DEL LIBRO UNICO

«Paul avrebbe scritto veramente quel che si dice un libro unico» (T. Bernhard, Il nipote di Wittgenstein, p. 73). Paul Wittgenstein, amico di Thomas Bernhard, nonché nipote di Ludwig Wittgenstein, aveva intenzione di raccogliere le proprie memorie in un’autobiografia di «più o meno trecento pagine» (Ibidem). Tuttavia, è morto senza riuscire a dar vita al libro unico che stava progettando. Delle trecento pagine, Paul ne avrebbe scritte soltanto una quindicina – verosimilmente, però, dovevano essere di più, precisa Bernhard. Se fosse riuscito nello sforzo, forse il titolo non sarebbe stato Il nipote di Wittgenstein, ma Paul Wittgenstein. Paul Wittgenstein, colui che ha scritto un libro unico, un libro capace di dire verità, proprio come suo zio, l’autore del Tractatus. La narrazione di Bernhard, invece, racconta un’eredità diversa del nome “Paul”, il quale, veramente, vive come apposizione del nome proprio dello zio, in modo analogo a come l’uomo, secondo Meister Eckhart in Quasi stella mattutina, dovrebbe vivere come avverbio accanto al Verbo, a Dio. Una differenza, quella fra Paul e Ludwig, quasi ontologica, segnata dal fallimento del primo e dal successo del secondo nell’impresa di scrivere il libro unico, dove l’aggettivo “unico” indica sia unicità – esclusività, originalità – sia unitarietà – unione, coesione, risolutezza. Che il Tractatus non sia un’opera soltanto di logica è evidente se si studiano i Quaderni e i Diari Segreti, i quali contestualizzano le proposizioni sul mistico e su quant’altro si dovrebbe tacere – dando significato a ciò che non dovrebbe avere senso. Il Tractatus è un’opera unica a tutto tondo – in entrambi i modi in cui può essere unica: sia originale, ossia portatrice della voce tutta esclusiva del suo autore, sia unitaria, che lega filosofia e autobiografia. Filosofia e autobiografia che, al contrario, rimangono in Paul una miscela eterogenea: un libro incompiuto.
È un’ossessione, quella per il libro unico, che oltre Paul e Ludwig Wittgenstein, coinvolge lo stesso Bernhard. Se Oehler ha ragione quando afferma che «in fondo tutto ciò che viene detto è citato» (T. Bernhard, Camminare, p. 28), allora non è un torto ermeneutico ascrivere a Bernhard le parole dei suoi protagonisti. Come, di conseguenza, non è un torto anche il ritenere che l’ossessione per il libro unico fosse condivisa da Bernhard. Con tale assioma metanarrativo, è facile trovare un fil rouge che attraversa Paul, la fornace di Konrad, la radura di Roithamer e finisce dov’è cominciato: in Bernhard stesso. Infatti, se è vero che Bernhard parla per bocca dei suoi Paul, Konrad, Roithamer, Oehler vi sono ragioni più che sufficienti per affermare che Bernhard fosse ossessionato dall’idea del libro unico. Ciò non significa che avesse intenzione di scrivere l’equivalente di un Tractatus – nonostante Bernhard si autocompiacesse della superiorità dei propri lavori, come testimonia l’amico Karl Ignaz Hennetmair – bensì che provasse un nutrito interesse nei confronti delle grandi opere – dei libri unici – poiché in esse vi è possibile scorgere il tratto del dottor Jekyll, ossia del genio, e di Mr Hyde, ossia del pazzo, del “mentalmente alienato”.
Dentro la fornace, Konrad tenta di stendere il suo libro unico sull’udito. “Unico”, in questo caso, richiama prima di tutto all’aggettivo “monotematico”. Tutto ciò che c’è da dire sull’udito, Konrad deve pensarlo, rimuginarlo, testarlo e metterlo per iscritto. Esasperato dal suo intelletto e dalla disabilità della moglie – di cui deve continuamente prendersi cura e che non riesce a tollerare, in primis perché lo distrae dalle ricerche – compie un uxoricidio.
Quando ci si è autocondannati a un lavoro intellettuale come il saggio, avrebbe detto Konrad […], cosa che certamente comporta un impegno a vita con questo lavoro intellettuale, si finisce col diventare ogni giorno di più la vittima di una congiura ordita contro noi stessi dal mondo intero ma anche da tutti i mondi possibili al di là del mondo (T. Bernhard, La fornace, p. 57, corsivo mio).
Roithamer, invece, prima redige un manoscritto volto a descrivere Altensam – il suo luogo di nascita – e i rapporti con la propria famiglia – mettendo l’accento sulla madre, ma soprattutto sulla sorella, per cui progetta a sua immagine e somiglianza la costruzione del Cono, il luogo dove essa si trasferirà per morirvi di lì a poco – poi corregge, corregge, corregge. Inesorabilmente, sempre più parole vengono cancellate, i capitoli accorciati, le pagine rimosse, la descrizione dei fatti si fa sempre più ardua, la comprensione sempre più oscura, finché non rimane che la correzione ultima: il suicidio. «Ma un giorno, da un momento all’altro, faremo quello che dobbiamo fare, e allora non saremo diversi da coloro che hanno già eseguito la loro correzione, che si sono uccisi» (T. Bernhard, Correzione, p. 287), così Roithamer.
Scrivere il libro unico, testimoniano Paul, Konrad e Roithamer, è impossibile. Dice Oehler: «Avessi l’intelletto […], avessi ininterrottamente l’intelletto, dice, mi sarei ucciso da tempo, ma non mi sono ucciso perché non ho ininterrottamente l’intelletto» (T. Bernhard, Camminare, p. 19). Avere intelletto, averlo continuamente, conduce alla “totale pazzia”, al destino di Roithamer e di Konrad. Allora è bene smettere di descrivere – e descrivere ancora e ancora – un oggetto, basta consumare la propria mente sulla mola dei fatti, perché «con il nostro pensare le condizioni diventano […] condizioni sempre più intollerabili» (T. Bernhard, Camminare, p. 15). Invece cambiare approccio, esistere contro i fatti: «esistere contro ciò che è insopportabile e contro ciò che è orribile» (Ibidem), dunque imparare a fermare il flusso di coscienza, a trattenersi dal voler esaurire l’oggetto attraverso la descrizione, a non volerne dirne l’essenza o la fondazione, a non volerlo unicizzare. L’impossibilità del libro unico riposa sull’impossibilità di dire una verità che si basi sulla corrispondenza fra il mondo e il linguaggio – o dire qualsiasi altra verità, infatti non ve n’è alcuna – e sull’incapacità di quest’ultimo di descrivere i fatti per “come sono”. L’impossibilità del libro unico è l’impossibilità di dire “questo è quanto” – di mettere un punto finale – senza che prima incomba la pazzia, senza che si ceda a quelle “condizioni intollerabili” in cui il pensiero sprofonda indagando la natura. «Non c’è un mondo da descrivere, ma un’esistenza da criticare» (A. G. Gargani, La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca, p. 8), uno dei motti che Gargani conia dalla letteratura di Bernhard, riassume quanto finora spiegato.
In Il nipote di Wittgenstein, La fornace, Correzione, Camminare, Bernhard mostra le pieghe – le contraddizioni, le stratificazioni di significato, lo spettro d’interpretazione – dei fatti, le capriole del pensiero, la discorsività della scrittura, mentre i protagonisti, spesso, occupati a studiare una natura che più viene approfondita e meno conoscenza di sé restituisce, testimoniano il fallimento della descrizione “vera” della propria vita (Paul), dell’udito (Konrad), di Altensam (Roithamer). Così Oehler:
Ciò che abbiamo non è che un surrogato dell’intelletto […] un pensare vero e proprio non esiste (T. Bernhard, Camminare, p. 19).
Bibliografia
Bernhard T., Il nipote di Wittgenstein, Milano, Adelphi, 1989.
Bernhard T., Correzione, Torino, Einaudi, 1995.
Bernhard T., Camminare, Milano, Adelphi, 2018.
Bernhard T., La fornace, Milano, Adelphi, 2022.
Gargani A. G., La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca, Roma – Bari, Laterza, 1990.
Hennetmair K. I., Un anno con Thomas Bernhard. Il diario segreto, Trebaseleghe, l’ancora, 2011