PRODOTTO NOTEVOLE

Luigi Pareyson non ama la dialettica hegeliana perché essa dissolve Dio nei fumi del concetto puro della metafisica; e c’è da dire che Pareyson ha trovato in Kierkegaard un antesignano ante signum e un alleato ante litteram. Basta leggere Kierkegaard e Pascal, il libro pubblicato dalla casa editrice Mursia che contiene le lezioni pareysoniane tenute dal 1965 al 1971 [da L’etica di Kierkegaard nella prima fase del suo pensiero (1965) a L’etica di Kierkegaard nella «Postilla» (1971)].
Ed è dalle lezioni del 1971 che si evince maggiormente l’allergia di Søren Kierkegaard, e quindi di Pareyson, per il Dio di Hegel, cioè per il Dio dei filosofi, il quale ultimo cerca di appropriarsi del concetto di Dio mediante l’uso di un pensiero che non può che essere «oggettivo» e perciò «oggettivante». La preoccupazione di Kierkegaard e di Pareyson non è quella di come fare filosofia, bensì di «come diventare cristiani»: non tanto riuscire a sapere le verità dogmatiche della teologia quanto piuttosto cercare di imparare a vivere quelle verità sulla propria pelle, nella propria esistenza quotidiana.
«La ‘persona colta’ in quanto tale, desidera la comunicazione diretta, cioè il sapere oggettivo: essa desidera anzitutto sapere che cos’è il cristianesimo, prima ancora di diventare o di cercar di essere cristiana: il suo è un problema di scienza non di esistenza, di oggettività non di interiorità, di verità esterna e oggettiva non di verità interiore e soggettiva. Invece, quando si tratta della verità del cristianesimo, il problema è tutto diverso, perché qui si tratta anzitutto di essere cristiano, di diventare cristiano, indipendentemente o anteriormente al fatto d’aver compreso e di sapere che cosa significa esser cristiano e che cos’è in generale il cristianesimo: qui la verità soggettiva, interiore, personale ha il primato sulla verità oggettiva, esteriore, universale: qui l’esistenza ha il primato sulla scienza, l’esistere ha il primato sul sapere».
[Luigi Pareyson: Kierkegaard e Pascal – Mursia, Milano 1998 – pag. 111]
Il vostro Profeta, o desistenti, se ne infischia, di questi cristiani, capaci solo a invalidare il concetto stesso di Verità filosofica con questo loro pretendere moralisticamente una responsabile e continua coerenza etica fra pensiero ed essere, fra pensare ed esistere; lo scopo dell’antifilosofia pareysoniana è
- combattere la assolutizzazione hegeliana del pensiero come pura speculazione, con la conseguente separazione del pensiero dall’esistenza, il che permetterebbe al «pensatore astratto» di pensare in categorie diverse da quelle in cui vive e di vivere in categorie diverse da quelle in cui pensa;
- dimostrare che il pensiero genuino è quello del «pensatore soggettivo», cioè ha un carattere esistenziale: è un pensiero inseparabile dall’esistenza, cioè non si preoccupa soltanto della verità oggettiva, esteriore, universale, oggetto d’una comunicazione diretta, ma consiste invece in una verità soggettiva, interiore, personale (senza per questo essere arbitraria), comunicabile solo indirettamente;
- sostituire alla facilitazione del problema del cristianesimo, conseguente alla concezione hegeliana del pensiero, per il quale basta sapere che cos’è il cristianesimo per essere cristiani, e quindi tutti sono cristiani, la constatazione dell’estrema difficoltà del cristianesimo una volta che si concepisca esistenzialmente il pensiero, giacché in tal caso per essere cristiani bisogna diventarlo, e nessuno può veramente dire di esserlo.
Questi esistenzialisti teisti sono poi quelli che accusano Martin Heidegger di non essere un filosofo autentico per via dei suoi trascorsi con il Nazismo; sono quelli che snobbano un maestro di pensiero, maître à penser, ché non è maestro di vita, maître à vivre. Il vostro Profeta, o desistenti, taglia corto: non è qui in questione il fatto che, a modo suo, Gesù Cristo sia stato un maestro di vita, ci mancherebbe! Il fatto è che per un desistente, il quale per antonomasia desiste dal far esistere, desiste dall’esistenza, è assolutamente irrilevante questa tanto strombazzata coerenza fra essere pensato e saper essere vissuto. Che l’esistenzialismo, teistico o ateistico, nasca dalla dissoluzione dell’hegelismo – come sostiene Pareyson in Esistenza e persona –, questo ha poca importanza; ciò che conta, e che preoccupa, è che l’esistenzialismo teistico non si occupa affatto della possibilità desistenziale di eludere la logica perversa del sacrificio come reazione omeopaticamente quasi “matematica”: male × malessere = benessere (prodotto notevole!).
Questa dialettica, cristiana, è un’operazione non meno cervellotica della dialettica hegeliana. «Mentre la dialettica hegeliana è di carattere conciliativo, accomodante, pacificante – dice Pareyson –, quella pascaliana è dirimente, staffilante, inquietante». Tutti i filosofi naturaliter cristiani hanno sempre una qual certa nostalgia delle staffilate, forse perché lo shock della flagellazione da essi contemplata nella Via crucis dell’Uomo-Dio è tale e tanta da impedire di poter anche solo lontanamente concepire un Essere astratto che non sia concretamente esistente nel dolore di qualche più o meno redentiva Passione e Morte. «Mentre quella hegeliana – la dialettica, dice Pareyson – ha una configurazione triadica e ascensiva, quella pascaliana ha una configurazione contrappuntistica e chiastica, basata cioè sull’ossimoro, nel senso che la compresenza di grandezza e miseria esclude la compresenza di una tal grandezza che sia superbia o di una tal miseria che sia depressione». Il vostro Profeta, o desistenti, non vi nasconde che il suo pensiero desistenziale è sorto proprio dalle ceneri del cristianismo, come quello pareysoniano dalle ceneri dell’hegelismo: dopo aver smesso di cercare la (as)soluzione esistenziale teistica nella collateralità dialettica di «Essere in Grazia» (essere in Dio) e «non-Essere in Disgrazia» (essere nel Peccato), egli ha cominciato a ricercare una soluzione esistenziale ateistica nella unilateralità non-dialettica di «Essere nell’Esistenza» e «Nonessere nell’Esistenza»; la prima è assoluzione di Dio, la seconda è soluzione dell’Io. «Quindi il chiasmo – continua Pareyson – si configura in questo modo: l’eliminazione della depressione e della superbia e la conservazione-compatibilità della grandezza e della miseria». In una sua famosa massima desistenziale intitolata Fiscalismo ontoteologico, il vostro Profeta, o desistenti, ebbe a dire:
Nell’economia della salvezza
non esiste un paradiso fiscale
in cui rifugiarsi per salvarsi
dalla biblica, tassativa, tassazione
imposta dal peccato originale.
«Un’imposta tributata all’esistenza non può essere imposta come un’esistenza tributata all’imposta» – questo è il chiasmo di Dexistens, il chiasmo desistenziale che s’oppone al chiasmo esistenziale di Pareyson, l’Existens. Se un «peccato esistenzialmente originale» non perdonò all’uomo l’introduzione di una tassa sull’esistenza, un «peccato desistenzialmente finale» condonerà all’uomo l’estradizione da questa tassa sull’esistenza: l’estradizione dell’essere umano fuori dall’esistenza umana.
«Ciò che salda queste due dialettiche è la storia della salvezza – continua Pareyson riferendosi alla grandezza e alla miseria dell’esistenza –, che attraverso la lotta mediante l’espiazione e la redenzione cerca di ripristinare escatologicamente la situazione protologica. Escatologicamente: cioè fino all’Apocatastasi, che è l’annientamento del male e la conferma del bene, e il trionfo della libertà». Non c’è dubbio che la dialettica nella quale ha voluto credere Pareyson non è stata la dialettica nella quale volle credere Hegel: la dialettica pareysoniana è protensione religiosa della ragione irrazionale verso l’indicibile Dio teologico, quella hegeliana è tensione filosofica dell’intelletto razionale verso il dicibile dio logico. La domanda è: quale delle due dialettiche è più adatta a risolvere il problema dell’ontalgia, l’unico vero problema dell’esistenza umana? Sappiamo in che modo Pareyson crede che il suo Dio teologico sia l’unico capace di dare una soluzione al problema del Male e del suo Malessere: con l’assoluzione sacramentale e con la croce, ma non su questa terra bensì al di là di essa; e questo è l’unico modo cattolico che ha il cristianismo di dare una soluzione. Il vostro Profeta, o desistenti, aborre – come ormai sapete – questa assoluzione dal Male e dal suo Malessere: oltre al danno anche la beffa? oltre al Male imposto dall’azione in aevo anche il Malessere posto da una coazione in aetate, sub condicione?
Il pensiero desistenziale è appunto pensiero proprio perché, per poter concretare il suo ideale deve astrarre dal reale; in questo senso il pensiero hegeliano e la sua dialettica sono assai più utili al desistenzialismo del pensiero pareysoniano e della sua dialettica. Evidentemente al desistenzialismo non interessa punto tutta la fenomenologia che sviluppa e dispiega l’Essere nel suo divenire esistenziale: dal momento che l’essere esiste il desistenzialismo ha già fallito e deve rilanciare se stesso oltre l’esistenza dell’essere, al di qua di esso, per poter continuare il suo discorso antidialettico. È antidialettico, il pensiero desistenziale, proprio perché astrae dall’esistere, o, meglio, trae dall’esistere ciò che lo motiva ad astrarre da esso: comincia con il trarre le conseguenze dell’esistere e finisce per trovare nell’astrazione la soluzione a tali conseguenze, nell’astrazione del Nonessere unilateralmente ancora separato dall’Essere, cioè prima che il divenire abbia commisto e imbastardito Essere e Nonessere nel mitico stupro prelogico e protologico di cui narra la Desistenza.
Nella sua Scienza della Logica Hegel lo dice chiaramente, che
«La realtà contiene essa stessa la negazione, è esserci, non già l’indeterminato astratto essere. Parimenti anche la negazione è esserci, non quel nulla che si vorrebbe far credere astratto, ma il nulla in quanto qui è posto com’è in sé, il nulla come quello che è, come quello che appartiene all’esserci.»
«Die Realität enthält selbst die Negation, ist Dasein, nichts unbestimmtes, abstracktes Sein. Ebenso ist die Negation Daseins, nicht das abstrakt sein sollende Nichts, sondern hier gesetzt, wie es an sicht ist, als seiend, dem Dasein angehörig».
[Hegel: Scienza della Logica – Laterza, Bari 1968 – tomo primo: pagg. 109-110]
Il Nulla qui considerato non è nemmeno più n-Ulla perché è ormai già un ni-Ente, nemmanco un Niente; l’ammanco ontologico non è più infinito come nel Nonessere unilateralmente considerato, cioè pensato, poiché l’Essere e il Nonessere sono già in divenire nell’esistenza ed è ormai tardi per poter avere la castità dell’Essere puro e del Nonessere puro illibati, che non si sono ancora toccati, che non sono ancora entrati nel contatto del contagio. Nel passo hegeliano sopraccitato si sentono già tutti i presupposti della filosofia heideggeriana: l’Essere è assenza assoluta di ogni Ente, e quindi è Niente, anzi, ni-Ente. L’indeterminatezza dell’Essere come assenza di Essere è anche quella del Nonessere come assenza di Essere: omnis negatio determinatio. Se non si determinano a vicenda, Essere e Nonessere nemmeno si negano vicendevolmente. La determinazione è per il cattocristianismo il Male che ha contagiato l’esistenza nella pandemia esistenziale del divenire: la determinazione del Nessuno adamitico nel determinarsi conoscendosi uno in due (la conoscenza di coppia), per esempio; ma anche forse quella dell’Essere-Creato(re) nel determinarsi conoscendo il Nonessere-increato; probabilmente due determinazioni stanno a fondamento dell’eternità e della storia: determinatio in aevo et terminatio in aetate. La determinazione è una decisione: in aevo la decisione dell’Essere e del Nonessere di negarsi l’un con l’altro, in aetate la decisione di Uno (Ente) e di Nessuno (Niente) di negarsi l’un con l’altro. Dopo la contaminazione della determinazione l’uno è negato come altro dall’uno stesso che nega:
- L’Essere non è Nonessere e il Nonessere non è Essere.
- Uno non è Nessuno e Nessuno non è Uno.
Curiosamente, però, Ente e Niente, Essere e Nulla, continuano a negarsi all’interno di una unità relazionalmente interlocutoria senza la quale affermazione e negazione non potrebbero nemmeno darsi: per potersi negare reciprocamente l’un l’altro, l’Uno e l’Altro devono anche potersi “contattare”, cioè contagiare; e probabilmente questo è il peccato ontologico: una contraddizione logica insita nella dialettica dell’esserci-già.
Quale dialettica? Quella ontoteologica della religione, o quella semplicemente ontologica della filosofia, può aiutare il pensiero desistenziale a legittimare e fondare le sue pretese? Quella semplicemente ontologica della filosofia, non c’è dubbio. Hegel è più utile di Pareyson, per dare una soluzione al Male e al suo Malessere ontalgico; e questo anche se Pareyson avesse ragione e Dio esistesse, lassù, nel cielo ontoteologico, a garantire l’efficacia del prodotto notevole Male × Malessere = Bene + Benessere. Per raggiungere l’«estetico» Bene del Benessere ontologico bisogna aspettare che tutta l’Umanità sia passata sulla terra a pagare il prezzo del suo peccato originale, mentre per giungere all’«anestetico» Bene del Benessere meontologico non è necessario aggiungere altro: basta aspettare che nessun’altra generazione aggiunga all’Umanità altra carne da macello.
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@ILLUS. by MAGUDA FLAZZIDE feat. TEKATLON, 2021