ALLA RICERCA DELLA NORMALITÀ PERDUTA
L’anno che verrà è contrassegnato dalla speranza in un ritorno alla normalità. Normalità infranta dall’insorgenza della pandemia da covid-19, che ha manifestato in pieno i suoi effetti nel ’20 e che attenuerà la sua morsa, così si spera, nel ’21. Come ogni fenomeno emergente, i suoi effetti e prima ancora la sua comparsa stessa, non potevano essere dedotti deterministicamente: certo, se ne sarebbero potute indicare probabilità e possibilità rese concrete da uno stile di vita globale e da processi di inurbamento e sfruttamento fuori controllo tali da ingenerare pericolosissime situazioni di promiscuità ecologica (incontro-scontro tra nicchie ecologiche differenti e, in parte, incompatibili), ma considerarlo una certezza il sopravvenire di una pandemia, quello no; con buona pace dei profeti ex post, era quasi impronosticabile (checché ne dica l’assai saggio bias cognitivo dell’hindsight, il meglio noto principio del senno-del-poi).
Allora, proprio a partire da questa sua ardua prevedibilità, la pandemia ha spezzato traumaticamente quell’ordine consuetudinario e sistemico all’interno del quale si conducevano le nostre esistenze. La normalità dello scorrere quotidiano del tempo ha lasciato spazio all’immobilità dei ripetuti lockdown (più o meno immobili) e portato al centro della scena forme alternative di comunicazione, di istruzione, di socialità, di svago e divertimento: tutte pratiche che si sono abbattute tanto più nella loro stringente necessità quanto più le fluttuazioni contingenti del contagio andavano a segnare l’agenda delle cose da fare. Gli auspici per questo anno che verrà sono proprio concentrati in quel ritorno alla normalità, o ad una nuova normalità (come molte pubblicità tengono a precisare), tanto da essere desiderio per il nuovo anno rispondere alla domanda di rito “come va?” non con il classico “tutto bene, grazie”, perché non-va-tutto-bene (benché #andràtuttobene), ma con un più sobrio: “tutto nella norma, grazie!”.
Unico problema: il concetto di normalità non è così trasparente come lo si presenta. In esso si coagulano molteplici dinamiche ontologico-metafisiche, speculative e logiche.
In prima battuta è da ricordare come già solamente a livello lessicale il termine sia etimologicamente derivato dalla struttura di una norma: il normale è la sostantivizzazione di un normato, ovvero di ciò che risponde ad una architettura normativa. Ciò che è normale è sempre riferito ad una norma che lo giustifica nel suo essere normale. Normale è allora il normato formato da una formalizzazione, da una costruzione (che sia logica à la Carnap?) del mondo che possa indicarne un senso, una direzione. La normalità cercata e ora perduta è proprio il ristabilirsi di quella costruzione prepandemica infranta nella sua linearità, più o meno disfunzionale che fosse. La speranza è che i cocci si ricompongano nel ripristino della precedente tramatura che il trauma ha sfibrato. Il richiamo stesso ad una nuova normalità non si dovrebbe pertanto configurare che come un benauspicio all’instaurazione di un nuovo corso paradigmatico, magari non necessariamente irrelato con il precedente per forza di cose abbandonato, ma che pur sempre si richiami ad un orizzonte normativo codificato.
Ed è proprio il richiamo all’intrinseca normatività della normalità che sposta il terreno della discussione nel suo genuino piano speculativo. Già Canguilhem nel suo Il normale e il patologico (1966) aveva tentato di fornire, in ambito medico, una definizione di ciò che fosse normale e cosa patologico. L’interrogativo è interessante perché porta alla problematizzazione di una concettualità ritenuta per lo più piana e autoevidente: tutto ciò che è normale è il non-patologico, mentre il patologico è il non-normale. Tesi in parte sostenuta dallo stesso Foucault, nel testo Gli anormali (che presenta il correttivo dell’alfa privativa per non caricare ontologicamente il suo discorso cultural-epistemologico: a-normale si è se a-normale si è socio-culturalmente considerato), con la variante terminologica a declinare il discorso sul crinale dell’alterità assoluta, dell’alienazione. Dualismo quello di Canguilhem che in qualche modo deve essere mitigato: lo stesso affermerà l’assai ardua difficoltà nel tranciare di netto un confine separatorio che possa metterci una pietra sopra con parole definitive.
Il normale e il patologico allora, più che individuare istanze singolari, si strutturano come campi trascendentali (à la Sartre) che forniscono condizioni di possibilità alle istanziazioni singolari che verranno di volta in volta considerate normali o patologiche. Quello che resta è, in sintesi, l’impossibilità di una sintesi che possa sussumere simmetricamente i due concetti che come tali resteranno sempre dei limiti. Questo è il lato propriamente speculativo, nell’accezione della sua incompleta simmetricità riflessiva: il normale e il patologico non sono il riflesso deformato l’uno dell’altro, ma il doppio spostato, incrinato e dislivellato di due campi trascendentali che dislocano su più piani il normale dalla cosa-normale (e il patologico dalla cosa-patologica).
Sarà inseguendo il declivio normativo che si passerà alla portata metafisica del tanto invocato ritorno alla normalità. L’aspetto logico di costruzione di un ordine e la struttura a campo trascendentale asimmetrico proprio del pensiero speculativo trovano il punto di convergenza nella contemporanea presenza dei vertici opposti: tanto il normale quanto il patologico, benché differenti ontologicamente (e praticamente), non possono che essere uniti in quel punto liminale, cioè di confine, dal quale si dipartono e si differenziano. Essere alla ricerca della normalità perduta significa tenere a mente l’inevitabile presenza del doppio patologico con la consapevolezza che la normalità stessa è il doppio del patologico. Un legame doppio e biunivoco che ricorda il rapporto duplice della Sostanza spinoziana e dei suoi attributi infiniti: come un attributo non è tale senza Sostanza e la Sostanza si sostanzia dagli attributi, così il normale non è mai senza il patologico e il patologico si esplica solo in quanto si duplica nel normale. Solo così la normatività del “normale” avrà potere di istituire regni ontologici.
Non so se nel 2021 sarà «tre volte Natale» o se «ogni Cristo scenderà dalla Croce»; ma si può star certi che l’anno che verrà, «la televisione ha detto», si andrà alla ricerca della normalità perduta.
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EPOCA CORONAVIRUS
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