DAL CORPO AL DIGITAL BODY

La ripresa delle attività e la concomitante ripresa della salita della curva dei contagi ci ha reso manifesto ciò che in fondo, forse, ci aspettavamo: la pandemia da covid-19 è ancora tra noi. Tuttavia diversa è la posizione dell’insorgenza. Se nell’inverno scorso ci ha colti di sorpresa, gettandoci in una crisi profonda, ora la quadratura concettuale che innerva il termine “crisi” non è più in grado di tratteggiare coerentemente i giorni che stiamo vivendo e che vivremo.
La crisi si è stabilizzata, gettandoci in un tempo di crisi perpetuo: la crisi ha così lasciato il posto all’epoca. All’epoca coronavirus.
La crisi coronavirus ha velocizzato un processo già avviato rendendolo urgente e sempre più auspicabile: la progressiva digitalizzazione di una porzione sempre maggiore di quotidianità. Se la cosiddetta normalità è stata stravolta dalla pandemia, un ritorno ai giorni pre-covid sembra ora ipotesi remota e scartabile quasi a priori. Una nuova quotidianità pertanto è in cerca di una tessitura, di una narrazione e di molteplici narratori che possano così darne sostanza.
Ci troviamo al cospetto di una esplosione concettuale: le nostre re(l)azioni si sono sedimentate e rafforzate – o meno – grazie alla mediazione del corpo che occupava il ruolo di autentico perno di rotazione tra attori inseriti in un contesto plurale. Ora, il nostro mediatore è salito agli onori della cronaca proprio per la capacità di mediare e fare ponte, proprio per la sua essenza collettiva: da perno di rotazione a propagatore pandemico. Questa mutazione dello statuto assiologico del corpo porta ad un ripensamento generale delle categorie con le quali è stato sino ad ora interpretato. L’Evento ha la capacità di fare epoca. Il virus, la sua pericolosità, la nostra necessità alla convivenza fanno sì che il tempo si comprima, acceleri bruscamente e si faccia epoca. L’epoca del coronavirus, ovvero l’ἐποχή (epoché) del corpo.
Messo tra parentesi. Durante la quarantena, nell’immobilismo più o meno assoluto ne abbiamo potuto esperire l’evanescenza: strade deserte, silenzio irreale, diluizione al minimo di ogni contatto. D’altro canto, la controparte digitale, il corpo non più mediatore ma mediato dal device di turno, ha prepotentemente rubato la scena. Videochiamate, call conference, dirette streaming, smart working sono diventate la nostra quotidianità. L’identità psicofisica si è sempre più disseminata nel proliferare di profili, di account, di indirizzi mail associati, di nick, e di iscrizioni a blog, siti, social networks. Il baluardo antropologico di una struttura fisica destinata ad essere frustrata dal lavoro, scalfitta e scarnificata sta lasciando il posto ad un corpo meno caduco, meno riottoso e potenzialmente eterno.
La riflessione ora è divenuta più che una fantasiosa suggestione da Nerd: il digital body, perdendo sempre più i caratteri propri della corporeità che lo hanno accompagnato nella brevissima avventura antropologica, sembra negare quei presupposti, recidendone così i legami che lo hanno visto il protagonista della storia umana sin dai tempi immemori della caduta postlapsaria. In un percorso a ritroso, sembra che oggi si sia al cospetto di un ritorno e del ritrovamento di quel Paradiso Perduto a causa dell’insania (umana?) dei nostri progenitori. Il digital body, in poche parole, rende patente e instaura la lotta cratica tra un antropologico (autoa)pocalittico e un redivivo teologico.
Per prima cosa si dovrà interrogare dal punto di vista concettuale che cosa oggi abbia la consistenza di un corpo. E quale altro ente oltre le reti possono, all’oggi, condividere una qualche corporeità? Per corpo non si intende più, allora, l’organismo biologico, né il “corpo senza organi” o l’organo senza il corpo (Žižek), né tantomeno la natura informazionale dei nuovi esseri viventi che sperimentano l’interrealtà dell’onlife (Riva e Floridi). Corporee, invece, sono le tracce, novelle signa prognostica, che permettono il rintracciamento, la prevedibilità e la previsionabilità (Vespignani). La rete assume il ruolo egemone perché espressione essa stessa di un potere: la rete piglia tutto (Alfieri). Nessuna eccezione, nessuno scarto, nessuna eccedenza: tutto è perfettamente lineare e luminoso. Il corpo potente ha ceduto la sua possanza alla rete.
Due sono gli aspetti principali che lo coinvolgono in questa concessione di potere:
- con il corpo inizia a farsi presente la morte. Fatica, lavoro, deperimento; nascita e inizio, fine e morte. Il limite. Il sigillo della natura corporea. Ci è miticamente vietato mangiare dell’Albero della Vita e così i nostri giorni sono contati, ridotti; la morte è quell’esperienza che fonda l’essere vivente, perché ne esprime la forza nel processo che è la vita. Controintuitivamente, il potere della vita non è la sua resistenza, il suo sforzo alla persistenza, ma la sua dipartita, “la morte nella vita” (Sisto), la scadenza che ne garantisce la cadenza. A sua volta garante della ritmicità. L’aritmia, ovvero la continuità porta l’antropologico su di un terreno altro, quello della continuità che mal si addice alla discontinuità umana: nascita, crescita e morte sono i passi della temporalità.
- Il corpo è tempo. In quanto disposizione è la messa di traverso che genera la domanda e l’attesa della risposta; è l’istanza interrogativa che porta la dinamica all’interno dell’Essere dislocandolo e aprendolo: ne evita il posteggiare sul posto e lo distende in più spazi. Tempus corporis distensio est.
Ora, è proprio il panorama concettuale di questi due aspetti antropologici – morte e temporalità – che la rivoluzione digitale sta mettendo in crisi nella concrezione del digital body. Consequenzialmente, una volta trasformato il nostro rapporto con la morte e in qualche modo la morte stessa, che incide sul corpo psicofisico ma non necessariamente su quello digitale, lo scossone si perpetra anche sulla temporalità: la vita online oltre la morte supera ogni possibilità di disposizionamento e di interruzione. È un perenne posteggiare in un movimento vorticoso e immobile che conosce solo ed esclusivamente la dimensione del presente (Rushkoff). Il tempo della Rete è il puro presente dell’aggiornamento, della simultaneità, dell’ubiquità: il proliferare dell’Eternità i cui momenti sono l’attimo ripetuto e immobile di un presente eterno.
1) Ritorno al Paradiso Perduto, 2) indebolimento della morte, 3) entrata nel regno dell’Eternità e dell’eterno presente: non sono forse questi aspetti a rimembrare uno statuto non antropologico? Se l’uomo, e il suo corpo, sono nati dopo la caduta a seguito del peccato, se con esso si sono introdotti la morte e il tempo, il digital body non sta forse percorrendo la strada a ritroso? Dall’uomo post-lapsario all’Adamo/Golem pre-lapsario (Henry), stiamo forse assistendo ad una apocalissi antropologica tutto a vantaggio di una distopia teologica? Sì può dire che il digital body sia corpo risorto?
@ILLUS. IN EVIDENZA, by FRANCENSTEIN, 2020
@ILLUS. NEL CORPO DEL TESTO, by TEKATLON, 2020
EPOCA CORONAVIRUS
@GRAPHICS by MAGUDA FLAZZIDE, 2020
DUE QUESTIONI TEOLOGICHE
Sull’ubiquità: Dio è ubiquo, ossia in tutti i luoghi/tempi/cose. Il (non) corpo, ente tra gli enti, digitale è al più multi-locato, ossia in due o più luoghi (e non allo stesso tempo/spazio/materia, poiché il tempo di un luogo è quello stesso tempo/luogo).
Sull’eternità: il tempo dell’eterno non è esistenziamente diverso dal tempo del tempo.
È metafisicamente diverso.
Proprietà del tempo eterno è di non passare, ossia di essere presente sempre nell’essere presente.
Proprietà del tempo temporale è di passare, ossia di essere passato, cioè di non avere forma, quando/dove, a quel punto, non è presente.
L’eterno è l’essere sé dei fenomeni => principium differentiae oppositorum.
Il tempo è l’essere e non essere sé dei fenomeni => principium identitatis oppositorum.
Pertanto non vi è differenza in chicchessia nel vivere il tempo o l’eterno. Vi è confusione, a prescindere dall’epoca, nell’anima in cui non appare la coscienza dell’essere e/o del divenire.
Così parlò The Doomstah