COSMOGENESI DELL’ESPERIENZA – DELEUZE E L’ORIGINALE SINTESI TRA PLATONISMO E ARISTOTELISMO – [VACCARO REMIX]

G. Piatti, Cosmogenesi dell’esperienza. Il campo trascendentale impersonale da Bergson a Deleuze, Mimesis, 2021 (Vaccaro Remix)
Quando si inizia a leggere Deleuze, si è percorsi da una sensazione di straripamento: ci si sente trascinati da una corrente, da un flusso di pensieri, riflessioni, capovolgimenti e rinnovamenti che assai arduamente lasciano indifferente il lettore. Una pervasione ai limiti della perversione – una volta letto cresce la curiosità di gettarsi a capofitto nelle sue pagine, pur senza coglierne totalmente la portata. E questo accade per un deciso indirizzo prescelto da Deleuze stesso: i suoi libri sono estremamente autobiografici, meglio ancora, autobibliografici. E non nell’accezione deteriore di una prodigalità d’autocitazionismo, quanto più nella vividezza della questionalità che il problema oggetto del contenzioso del volume che si sfoglia porta con sé. Si tratta di una precisa scelta stilistica, dietro alla quale si cela, più o meno manifestamente, un impianto teoretico che la rende possibile e consistente. Giulio Piatti, in questo suo accurato studio imperniato sull’evoluzione storico-concettuale del campo trascendentale impersonale tra Bergson e Deleuze, si inserisce nella complessa matassa del milieu culturale all’interno del quale si è formato Deleuze e parte della sua generazione, non per districarla una volta per tutte, quanto più per approfondirne la natura di matassa. Difatti, non manca di citare un passaggio del filosofo francese contenuto in Differenza e ripetizione, nel quale ben compare quel sostrato teoretico trascendentale:
un problema non esiste al di fuori delle soluzioni che gli sono proprie. Ma lungi dal dissolversi, il problema persiste nelle soluzioni che lo ammantano (p. 273).
Ecco la cifra stilistico-personale che fa l’uomo-filosofo Deleuze: i problemi che affronta sono in primo luogo i suoi problemi, le sue incomprensioni, il suo lavorio meticoloso e trasformativo proprio della sua filologia da tergo – ricordiamoci dell’«inculata» di Pourparler; in secondo, il problema si affranca dall’essere “mera” metodologia filosofica, per assurgere a problematica, a inesauribile irrisolubilità nella messe delle infinite soluzioni: come ebbe a scrivere Rocco Ronchi, autore della prefazione di questo volume, in una sua monografia su Deleuze, il reale per il filosofo francese non è teorematico, bensì, per l’appunto, problematico (Ronchi, Gilles Deleuze. Credere nel reale, p. 16). La natura problematica della filosofia è stata riconosciuta anche in Lovejoy nella concrezione concettuale di idea-unità (Prefazione a Cosmogenesi dell’esperienza, pp. 9-14): non essendo propriamente concetto, né principio, è il già principiato in ciò che è incominciato, l’Ur- da cui ogni Sprung si “sostanzia” in qualità di Ursprung. Evidente è il debito nei confronti dell’idealismo tedesco fichtiano e schellinghiano, nonché di un sempre presente neoplatonismo nascosto nel progetto deleuziano di un «reversement du platonisme». A partire allora da questo (s)fondo, la ricostruzione diacronica non può che intersecarsi inestricabilmente con una sincronia propria di ogni filosofia che si rispetti, di ogni filosofia che sappia pensare, insieme, i finiti temporalmente connotati e l’eterno a loro trascendentale.
Conseguentemente, l’operazione primaria da svolgere è individuare le manifestazioni del problema, coglierne le rispettive genesi, porle in dialogo reciproco provocandole l’una con l’altra e stressarle fino ai loro estremi: una volta raggiunto il termine liminale, rovesciarle e denudarne il cuore, il segreto che tanto gelosamente hanno custodito. Per questo, per una storia evolutiva del concetto di campo trascendetale impersonale – nozione portata al centro della riflessione filosofica da Sartre – il punto di enucleazione originaria sarà da trovare ben prima che essa sia divenuta freccia della faretra speculativa. In Bergson allora, proprio perché non ha mai fatto sua quella dizione, si può individuare il padre spirituale di tale indirizzo grazie al suo impegno di opposizione e rinnovamento del kantismo in veste metafisico-trascendentale (quast’ultimo assetto sarà poi espressamente preseguito da Deleuze che lo eleverà a vera finalità del suo processo filosofico). Se il filosofo tedesco aveva compiuto la rivoluzione copernicana ribaltando il fulcro di preminenza gnoseologica – l’oggetto verrà destituito della sua centralità tutto a vantaggio di un soggetto che ordina e costituisce il reale – finendo de facto con l’identificare l’epistemologia con la metafisica, per il filosofo francese l’impegno che si presentò innanzi fu quello di completare la rivoluzione mancata di Kant: se di vero copernicanesimo filosofico si fosse voluto parlare, si sarebbe dovuta scardinare la primalità del soggetto imbullonato, fulcro di ogni esperienza possibile. Da qui la necessità di pensare un centro impersonale. Ma per pensarlo impersonale, il medesimo centro avrebbe dovuto essere de-centrato: e questo è quanto ha trovato conferma nel sistema di immagini a-centrate che costituiscono il primo capitolo di Materia e memoria.
Riconosciuto un piano di immagini a-centrate, senza soggetto organizzatore, di cui anzi il soggetto è effetto, risulta decisivo rivolgersi ad un principio che possa permettere alle immagini di transitare: questa natura trascendentale non può che essere ricondotta alla presenza di un campo, di un luogo all’interno del quale le immagini possano scorrere e condensarsi, luogo di trapasso da una memoria inattuale e inefficiente (la memoria come virtualità bergsoniana) ad una attualizzazione concreta e pragmaticamente orientata. Il campo trascendentale impersonale è allora tale luogo, tale spazio nella cui spazialità accadono le realtà. Prendendo spunto da una considerazione simile, Deleuze ne ha tratte le conseguenze: il campo non può essere identificato come pura materialità, evitando così di ricadere in un bieco materialismo, né tanto meno se ne possono però negare le virtù proprie di una materia che è essa stessa movimento; d’altro canto, se lo spazio ha natura strettamente eventiva, non si può concedere troppo ad un indebito soggettivismo spiritualistico. Per questo Piatti individua in Bergson prima e in Deleuze dopo, «un articolato metodo di connessione tra un rinnovato materialismo non riduzionistico e uno spiritualismo non più soggettivistico» (p. 23), che trova la sua ragione nella considerazione della positività della realtà.
Affermarne la positività implica riconoscere il superamento di una della categorie classiche della metafisca occidentale, ovverosia quella del possibile. Al contempo però, coglierne la positività non conduce necessarriamente alla soluzione parmenidea che, in quanto tale, sarebbe costretta da un immobilismo ferreo. La realtà è positiva, certo, ma differente: alla differenza non inerisce la negazione di stampo platonico – espressione del rappresentazionalismo del filosofo ateniese, ereditato anche da Kant – ma è essa stessa origine del differenziarsi nei differenti. Pensare la positività del reale porta, se si vuole essere conseguenti, all’affermazione della più totale differenza, dello slancio differenziante. L’essere è, in fondo, differenza differenziante, sfondo senza fondo di unità (in)differenziata potenzialmente caricata a differenziarsi totipotenzialmente – denunciando ancora forti legami con la filosofia schellinghiana abbandonati e perfezionati a partire da Logica del senso (pp. 199-200).
Ed è proprio approfondendo tale aspetto che la positività del reale ha trovato sua più completa fomulazione nell’introduzione del concetto metafisico di univocità dell’essere. A differire insomma non sono i nomi con i quali si dice l’essere – la polisemanticità analogica aristotelico-tomista – ma proprio ciò di cui si dice l’essere. L’essere quindi non si dice in molti modi, ma in un modo soltanto; sono le cose – gli eventi – di cui si predica l’essere a essere effettivamente diverse. La portata si fa certamente metafisica, ma di una meta-fisica che si realizza in quanto fisica (Candiotto-Pezzano, Filosofia delle relazioni), ovvero di una metafisica che si fa mondo, cosmo
che, pur differenziandosi secondo infiniti gradienti di intensità, possiede una sola voce, capace di collegare, attraverso un unico “filo” (Bergson, Evoluzione creatrice), tutto l’insieme della realtà. Pensare in termini cosmologici significa allora, tanto secondo Bergson quanto secondo Deleuze, cogliere le molteplici relazioni che scorrono all’interno del mondo (p. 285).
Natura cosmologica definitivamente affrancata da quella dialettica della ragione che rinveniva nell’impossibilità antinomica di ricomprensione razionale la chiave di (s)volta della regolatività dell’idea di mondo. Qui il cosmo recupera quell’originaria parentela metafisico-ontologica che il “puro metafisico”, il “filosofo molto classico” Deleuze (p. 27) aveva intravisto, miticamente, nel Timeo platonico, e organicamente dal De Coelo aristotelico. Ma non sarà il versante strettamente cosmologico a interessare il filosofo francese in questa riscoperta dell’ontologia, quanto più la riflessione estetica sulla natura del cinema. Criticato fortemente da Bergson nell’Evoluzione creatrice, ma rivalutato dal giovanile Apologia del cinema sartriano (1924-1925 circa; per maggiori informazioni, cfr. M. Carbone, Filosofia-schermi), presente nella produzione più marcatamente ontologica di Merleau-Ponty, il cinema acquisisce in Deleuze un ruolo centrale: è la concretizzazione di quel sistema di immagini bergsoniano, quel piano di consistenza che si era sviluppato da Logica del senso a Mille Piani. In poche parole, nel cinema prende corpo quel materialismo spiritualista che si srotola, con movimento spinoziano, sul piano di immanenza, ultima trasformazione teoretica del campo trascendentale impersonale. Ed è proprio a questa altezza, una volta data consistenza ad un piano d’immanenza, che può entrare in scena il personaggio concettuale principale, autentico protagonista della cinesofia deleuziana: l’evento.
Quest’ultimo è l’attualizzazione singolare, un’attualità esistente che trova la sua ragion d’essere all’interno di una attualità insistente che è la virtualità del piano di immanenza stesso. L’attualità esistente dell’evento non si esaurisce nell’effettuazione pragmatica di ciò-che-si-è-reso-evento: se venisse prosciugato dall’attività eventiva, il piano di immanenza perderebbe la sua natura virtuale per guadagnare la sfera del possibile, cagionando un rientro dalla finestra della negatività cacciata dalla porta principale. L’evento non è tanto ciò che è – la cosa che accade – in quanto «più che coincidere con ciò che accade – ovvero l’attualizzazione delle intensità preindividuali a partire da un piano di immanenza – esso è situato in ciò che accade» (p. 267). L’evento è allora quel che (non) accade in ciò che accade, quel (non) accadere che se accadesse farebbe perdere l’eventività nell’evenemenzialità documentale, ma che se non accadesse verrebbe meno proprio quell’evenemenzialità nella quale (non) vi sarebbe eventività.
L’estetica del cinema – e aggiungerei anche le tavole magistralmente raffigurate dal mangaka Shuzo Oshimi (basti pensare al suo intenso Shino non sa dire il suo nome e alla centralità assegnata ad ogni singola vignetta che siccome singolarità eventiva è tanto il fermo-immagine quanto l’inabitato accadere che si srotola grazie al dinamismo virtuale sulla superficie-cristallo di un piano unico di composizione immanente, erede del piano unico di composizione organica di Étienne Geoffroy Saint-Hilaire) – allora permette il passaggio ad un sequenziare le attualizzazioni in immagini-movimento e immagini-tempo. L’estetica cinematografica si carica così di una portata ontologica nella quale l’evento si viene a trovare a essere nexus (p. 272), punto di incrocio tra ciò-che-accade, ciò che (non) accade in ciò-che-accade e un accadere virtuale: in una parola, onto-estetica.
Di conseguenza, tale natura onto-estetica riporta in scena il prospetto cosmologico. Ma una cosmologia colta nella sua incoatività processuale: l’ontologia è allora più propriamente ontogenesi (p. 175). E qui raggiungiamo il grado massimo di quella paradossalità che Deleuze ha saputo cogliere dai travasi del suo milieu culturale: Bergson, Sartre, Hyppolite, Marleau-Ponty, Ruyer, Simondon… Difatti, se l’evento è strettamente connesso all’univocità virtuale, e il virtuale è l’attualità insistente che l’evento rende esistente nel suo accadere, come è possibile l’aspetto genetico dell’ontogenesi? Come è possibile, in sintesi, una cosmogenesi dell’esperienza? La processualità stessa del reale e l’attualizzazione temporale di una oggettività eterna, eredità del platonico Whitehead, fanno irrompere nel terreno di gioco l’eternità che prefigurerebbe, in veste di trascendentale, i finiti eventivi-evenemenziali, come riconosciuto dall’autore di questo studio:
[l]’evento è infatti tanto singolare quanto eterno: nella più situata delle ecceità – dalle cinque della sera invocate da García Lorca siano a una semplice passeggiata – è incorporata un’eternità in atto, irriducibile al semplice stato di cose che questa sembrerebbe temporaneamente incarnare. In altri termini l’eterno non esiste, tanto per Whitehead quanto per Deleuze, che nel singolare a cui non è tuttavia mai completamente riducibile (pp. 272-273).
Un eterno pertanto contraddittorio, che nella sua contraddittorietà garantisce la creatività ontogenetica. E così, all’interno di una sofferta metafisica immanente, nell’elaborazione di un piano di immanenza creativo, nella eternità singolarmente eventiva, vengono sintetizzati originalmente Platone e Aristotele, Whitehead e Spinoza, Duns Scoto e noetica rushdiana, Bergson e tutta quella generazione di filosofi che, in un modo o nell’altro, a lui si sono richiamati, lasciando così aperti gli spazi per ulteriori allargamenti di campo in ambito estetico (cinema e la suggestione manga) e metafisico-ontologico (Jaspers e l’Umgreifende), all’insegna della paradossalità della virtualità.
Rocco Ronchi, Gilles Deleuze. Credere nel reale, Feltrinelli, Milano 2015.
Mauro Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Raffaello Cortina, Milano 2016.
Laura Candiotto – Giacomo Pezzano, Filosofia delle relazioni. Il mondo sub specie transformationis, il nuovo melangolo, Genova 2019.
@ILLUS. IN EVIDENZA by PATRICIA MCBEAL, 2021
@ILLUS. NEL CORPO DEL TESTO by GENE-RICK, 2021
@ILLUS. DELEUZE by, FRANCENSTEIN, 2021
COSMOGENESI DELL’ESPERIENZA.
Il campo trascendentale impersonale da Bergson a Deleuze