LA DEATH EDUCATION AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
L’emergenza sanitaria, sociale ed economica legata al diffondersi del Covid-19 su scala mondiale sta portando alla luce, a causa del dramma collettivo che stiamo vivendo, una serie di riflessioni significative in relazione al nostro rapporto con la morte.
L’Occidente, nel corso dell’ultimo secolo, ha progressivamente rimosso la morte dallo spazio pubblico all’interno di cui conduciamo le nostre vite quotidiane. Il processo di rimozione sociale e culturale della morte, da cui segue l’idea che parlare pubblicamente di morte sia inopportuno (Geoffrey Gorer usava, negli anni Cinquanta, l’espressione “pornografia della morte” per sostenere che la morte ha sostituito il sesso come il tabù per eccellenza della nostra società), ha determinato una situazione in cui i cittadini sembrano vivere senza avere coscienza della propria mortalità. La mortalità, generalmente, si manifesta non tanto come una caratteristica propria della vita stessa, quanto come l’effetto specifico di una colpa altrettanto specifica, una volta sviluppatasi una malattia invalidante o in presenza di un pericolo particolarmente grave. Motivo per cui si tende a raffigurare il rapporto tra il singolo e la sua malattia con immagini di natura bellica: il medico appare come un supereroe che ha il compito sacro di sconfiggere il Male. Di conseguenza, ci si dimentica del ruolo sociale degli Hospice e delle cure palliative (tuttora ignorate dalla maggior parte della popolazione italiana).
L’incertezza e la paura, cagionate dalla attuale minaccia della pandemia mondiale, riportano violentemente la morte e la fragilità esistenziale dinanzi agli occhi dei cittadini. I comportamenti irrazionali che abbiamo visto in questi giorni – la corsa al supermercato, l’hashtag superficiale #andràtuttobene quale corrispettivo di quel the show must go on che fa danni enormi durante le prime fasi di elaborazione del lutto, la caccia all’untore sui social network, ecc. – sono esempi significativi di un brusco risveglio: di colpo, ci si riscopre vulnerabili e soggetti all’oblio eterno. Dunque, non si sa cosa fare. Tale risveglio viene enfatizzato da numerosi effetti collaterali prodotti dal Covid-19: le impressionanti immagini dei mezzi militari che trasportano le salme da cremare da Bergamo verso altre zone dell’Italia, l’isolamento nei reparti ospedalieri dei malati, prossimi a morire da soli, la frustrazione dei parenti dei morenti, che non hanno modo di salutare i propri cari né di celebrare i riti funebri, ecc. Le tecnologie digitali, a loro volta, svolgono il duplice compito di amplificare la presenza “visiva” della morte, come dimostra l’attuale uso dei social media, e di offrire al tempo stesso opportunità importanti per renderla meno straziante (per esempio, i tablet usati per le video-chiamate tra i malati e i parenti o i sempre più diffusi funerali in streaming).
Questa emergenza, tanto sottovalutata dai cittadini più superficiali quanto sopravvalutata da coloro che invece pensano di vivere all’interno di un film apocalittico, ci fa innanzitutto capire che bisogna evitare la via interpretativa di chi, proiettando sulla realtà le proprie elucubrazioni complottistiche, si domanda, retoricamente e in maniera quantomeno approssimativa, “che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?” (cfr. Agamben). Occorre, semmai, riconoscere la sofferenza di migliaia di cittadini e ricondurre il valore della sopravvivenza all’interno di un sano percorso di Death Education, termine con cui si intende una specifica strategia pedagogica rivolta all’insegnamento del ruolo centrale della morte all’interno della vita, a partire dall’età dell’infanzia, prendendo in considerazione le istanze emergenti in campo culturale, sociale e sanitario. In Italia, presso l’Università di Padova, è attivo da alcuni anni il Master “Death Studies & the End of Life”, che propone insegnamenti relativi alla Death Education tanto agli studenti e ai ricercatori di formazione umanistica – prevalentemente filosofica, pedagogica e psicologica – quanto agli operatori sanitari.
Le profonde restrizioni poste alle nostre abitudini devono, cioè, diventare il punto di partenza per ripensare il legame tra la vita e la morte, di modo che i cittadini, in un futuro non lontano, dispongano di un numero maggiore di strumenti per limitare i comportamenti irrazionali e per mediare il comprensibile timore nei confronti dell’ignoto con quella compostezza che è frutto di un atteggiamento, se non pacificato, almeno fatalistico dinanzi alla morte. Questo, ovviamente, non significa abbassare la guardia e non prendere tutte le precauzioni necessarie per superare l’emergenza. Significa, semmai, riconsiderare il valore della sopravvivenza alla luce della nostra fragilità congenita, collocandolo all’interno di una dimensione autenticamente solidale e responsabile. Da questo punto di vista, le tecnologie digitali dispongono di enormi potenzialità, poiché ci forniscono i mezzi opportuni per modernizzare il nostro legame con i riti funebri, con l’elaborazione del lutto, con la condivisione collettiva del dolore in presenza di una perdita.
Come sempre, però, le potenzialità di percorsi pedagogici e filosofici in grado di farci crescere e maturare necessitano di un riconoscimento da parte dello Stato e degli altri partner sociali. Se si continua a sottovalutare il pericolo della rimozione sociale e culturale della morte e a non prendere in considerazione il ruolo delle tecnologie digitali in relazione al fine vita, continueremo a rimanere abbandonati a noi stessi, in balia delle paure, delle ansie e delle irrazionalità che – in casi come quello del Covid-19 – non possono far altro che creare danni ulteriori rispetto a quelli, oggettivi, prodotti dall’emergenza stessa.
Davide Sisto – Università di Torino, dipartimento di Filosofia e Scienza dell’Educazione
Davide Sisto è su Facebook e su instagram ed è cocuratore (insieme a Marina Sozzi) del blog Si può dire morte
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AB SOLUTUM
Deus ab esse se solvere non potest,
et inde a sistentia non solvi.
Homo ab exsistentia se solvere potest,
et deinde ab esse solvi.
Homo ab esse solvendum.