FIGLI DI PROMETEO: CONSIDERAZIONI SPARSE SU TECNICA E DINTORNI

Tra i finali più emblematici della letteratura di fine ‘800 si inserisce a buon diritto il celeberrimo epilogo di Anna Karenina in cui l’eroina pone fine ai suoi giorni buttandosi sui binari della stazione di Mosca. Nel romanzo di Lev Tolstoj la stazione e il treno non costituiscono soltanto il contesto in cui si snodano i passaggi più significativi della storia di Anna, ma indicano inequivocabilmente un momento cruciale di quella del mondo. La ferrovia e la macchina, l’acciaio e il fuoco, incarnano la necessità umana di esprimersi nella tecnica. Non si tratta del semplice costruire cose: come scrive Roland Barthes[1] a proposito de La bestia umana di Zola, la relazione fra la locomotiva e il macchinista va al di là del semplice uso che l’uno fa dell’altra. Jaques Lantier alimenta dall’interno la sua Lison. Dotata di un nome, la locomotiva è nutrita, curata e ascoltata in ogni suo sbuffo e cigolio. L’uomo e la macchina sono un tutt’uno che si spinge velocemente sempre avanti.
Reale o metaforico è il fuoco della tecnica a insufflare un’identità precisa al genere umano. Nel generare macchine, l’umanità genera e ri-genera continuamente se stessa. Non è un caso che a Prometeo ed Eraclito si debba quell’idea di cesura fra divino ed umano prima e polemos quale origine di ogni cosa poi, su cui ancora oggi ci interroghiamo. Lungi dall’essere semplicemente l’elemento in cui la realtà prende origine per rarefazione e condensazione, il fuoco di Eraclito resta se stesso divenendo perennemente. Il divenire non è qui inteso nel senso di mutazione in altro da sé, ma esattamente il contrario. Non c’è dunque sostanziale contrapposizione, come osserva Remo Bodei[2], fra il pensiero dell’Oscuro e quello di Parmenide. Lapidario è a questo proposito il frammento 30:
Quest’ordine, che è identico per tutte le cose, non lo fece nessuno degli Dei né degli uomini, ma era sempre ed è e sempre sarà eternamente vivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne[3].
Vale la pena rammentare che Efesto nella mitologia greca è sia il dio del fuoco che della metallurgia. Ritratto spesso con delle tenaglie Efesto è il fabbro degli dei, colui che forgia il metallo nella fiamma creando qualcosa che in natura non nasce spontaneamente. È a lui che Prometeo ruba la fiamma in grado di emancipare gli uomini. È il fuoco che consente l’evoluzione della tecnica a creare la grande frattura fra uomini e dei. Come scrive Goethe in Prometheus[4], è Prometeo, primo fra i Titani, a ribellarsi al padre Zeus rubando il fuoco e creando la stirpe degli uomini fatta
Per soffrire e piangere, godere e gioire, e non curarsi di te, come me[5]
Con il fuoco e la tecnica gli uomini rovesciano i rapporti di forza: non sono loro ad aver bisogno degli dei, ma il contrario. Per non scomparire abbandonati in una immortale solitudine, questi ultimi devono sperare di essere creduti senza che ci sia più bisogno di loro. La frattura fra umano e divino si consuma così tecnicamente.
L’altro momento di rottura generativa è quello fra genere umano e natura. Koselleck, come Heidegger prima di lui, osserva che il mondo umano sorge con la manipolazione tecnica e si impone come perenne atto di disequilibrio imposto alla natura[6]È la manipolazione il tratto distintivo dell’uomo in quanto Essere naturalmente culturale[7]. Essere umani significa non tanto adattarsi e non solo adattare il mondo a sé snaturandolo, ma destinare se stessi a un processo evolutivo in cui il confine con la macchina si fa sempre più sottile. Se ciò costituisca l’inizio di una sfida o di un epilogo è tutto da vedere per i figli di Prometeo.
[1] Roland Barthes, Introduzione a La bestia umana, di Émile Zola, Rizzoli 1976.
[2] Remo Bodei, Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, 1992.
[3] Diels-Kranz, Eraclito, Frammento 30.
[4] AA.VV, Prometeo. Variazioni sul mito, Marsilio 2022.
[5] Ibid.
[6] R. Koselleck, Futuro passato, per una semantica dei tempi storici, CLUEB 2007.
[7] M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2001.
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