METAMORFOSI DEL SÉ: EDIPO, LA DISSOLUZIONE (Parte II)

Nell’Edipo re Sofocle scolpisce la figura del figlio di Laio nella sua complessità e variabilità, nella metamorfosi progressiva e distruttiva che si attua nella sua psiche, dove il livello cosciente di unità del soggetto è inversamente proporzionale al grado di verità cui egli si avvicina. L’Edipo del prologo e del primo episodio è un Edipo risoluto, deciso, sicuro della propria autorevolezza e del proprio ruolo, forte della della sua γνώμη e del suo metodo conoscitivo: la sua identità non vacilla, sa di essere l’ἀγαθὸς τύραννος rispettato e riconosciuto dal popolo, che può contare su un metodo conoscitivo razionalistico, semeiotico e indiziario che non può fallire. Integro nella sua identità, compreso nel suo ruolo, «tutte le simpatie sono per lui», rileva Gennaro Perrotta, e la conoscenza, ben lungi dall’essere questione di identità, si configura semplicemente come indagine razionale nelle mani di Edipo. Eppure nell’autorità, nella certezza stessa che Edipo sembra incarnare, si insinua, tra le righe, qualcosa di opaco, che minaccia la limpidezza unitaria del discorso del re ed inizia, sottilmente, a sdoppiarlo e a confondere:
Ma io farò luce su tutto, ricominciando dal principio. A buon diritto Febo, a buon diritto tu, avete dimostrato qualche sollecitudine per il morto; e con piena giustizia mi vedrete pertanto al vostro fianco nel vendicare questa terra e il dio. Non già per amici lontani, ma per me stesso io cancellerò questa macchia: chi ha ucciso Laio, chiunque egli sia, può uccidere anche me con la stessa mano. E quindi giovo a me stesso, se vendico lui (Sofocle, Edipo Re, 132-141, nella traduzione di Franco Ferrari).
Emerge, in questi versi, un doppiezza che, con ironia tragica, fa intendere l’ambiguità di fondo che permea la vicenda, quasi che, già in queste prime parole del prologo, l’unità dell’identità di Edipo non fosse così salda. Da un lato, infatti, vi è la dimensione ufficiale del τύραννος, risoluto nel voler fare in prima persona chiarezza, ἐγὼ φανῶ, pronto ad agire in conformità con la giustizia, ἐνδίκως; dall’altro, a partire dal verso 137, i periodi si infittiscono di pronomi variamente espressi e declinati, αὐτὸς, αὑτοῦ, ἐκεῖνον, κείνῳ, ἐμαυτὸν, con l’effetto di rendere labili i confini fra le identità individuali, confondendoli e mescolandoli, come a suggerire, implicitamente, che l’ἐκεῖνος, quello, l’Altro, non è forse poi così distinto dall’αὐτός e dall’ἐμαυτός. Ma vi è un’altra ambiguità che la critica ha messo in luce, e riguarda il genitivo αὑτοῦ al verso 138, comunemente fatto dipendere, sottintendendolo, dall’ὑπὲρ al verso precedente, e dunque tradotto come complemento di vantaggio (per me stesso); eppure, senza forzare la sintassi, lo si potrebbe parimenti ritenere genitivo soggettivo dipendente da μύσος, e la traduzione suonerebbe «cancellerò questa mia impurità» ossia «questa impurità da me orginata», che renderebbe massima l’ironia tragica.
Ed è proprio l’ironia tragica la cifra caratteristica della doppiezza di Edipo, essa non semplicemente «comunica al pubblico un senso di partecipazione al dramma», per usare parole di Harold Caparne Baldry, ma, nel caso di Edipo, esprime la molteplicità ontologica che abita la sua presunta individualità, a tal punto che, quando parla di sé, parla dell’Altro, e, quando parla dell’Altro, parla di sé, rivelando quella «doppia reciprocità in cui le identità sono confuse» di cui parla René Girard, in un percorso progressivo di perdita dell’identità. Tale processo di graduale sdoppiamento comincia nel momento in cui alla conoscenza di Edipo si oppone quella di Tiresia, il sapere si sdoppia in γνώμη e ἀλήθεια: «Πέφευγα· τἀληθὲς γὰρ ἰσχῦον τρέφω» (v. 356: «Sfuggire al castigo? Sono già salvo, ho la forza della verità»), afferma Tiresia rivendicando l’infallibilità del sapere rivelato, «ἀλλ’ ἐγὼ μολών, / ὁ μηδὲν εἰδὼς Οἰδίπους, ἔπαυσά νιν, / γνώμῃ κυρήσας οὐδ’ ἀπ’ οἰωνῶν μαθών» (vv. 396-398: «E invece proprio io, Edipo, io che nulla sapevo, appena giunto ammutolii la Sfinge con la forza della mia intelligenza, senza nulla avere appreso dal volo degli uccelli»). Ed è doveroso specificare che non si tratta di una questione esclusivamente gnoseologica, che, cioè, si limiterebbe a contrapporre due differenti approcci conoscitivi alla realtà, bensì abbraccia, più estesamente, la sfera ontologica dell’individuo, poiché, nel momento in cui il vero viene frantumato in tante verità (quella di Edipo, di Tiresia, di Cadmo, del messaggero, del servo), l’esistenza stessa è vittima di una frammentazione caotica e smarrente.
A tal proposito, condivisibilmente Foucault ritiene l’Edipo Re tragedia della frammentazione, dove la vicenda viene spezzata in frammenti e questi frammenti, a loro volta, vengono ripartiti in mani differenti, per poi essere ricostruiti in sede conclusiva, in maniera tragica e traumatica. È, in fondo, la frammentazione stessa di Edipo, del suo sistema conoscitivo, del suo ruolo sociale e della sua identità, così desideroso di verità ma poi smarrito di fronte ad essa, «Φεῦ φεῦ, φρονεῖν ὡς δεινὸν ἔνθα μὴ τέλη / λύῃ φρονοῦντι» (vv. 316-317: «Ahimè! Com’è terribile sapere, quando il sapere non giova a chi sa»), lo avverte Tiresia, quasi ad invertire l’eschileo πάθει μάθος in un più pessimistico μάθει πάθος: dove c’è conoscenza, c’è sofferenza, perché la conoscenza altro non è che il riconoscimento dell’inconoscibilità di sé, del proprio passato e del proprio futuro.
Più volte Tiresia, prima di arrivare alla profezia vera e propria (vv. 446-462), fa intendere ad Edipo quanto sia debole l’identità che egli si riconosce e si sente riconosciuta, quanto sia distante dal vedere l’abisso in cui è precipitato, e dunque dal comprendere che l’assassino che cerca è dentro di lui: «ὡς ὄντι γῆς τῆσδ’ ἀνοσίῳ μιάστορι» (v. 353: «sei proprio tu l’essere immondo che ha contaminato questa terra»), «Φονέα σέ φημι τἀνδρὸς οὗ ζητεῖς κυρεῖν» (v. 362: «sei tu l’assassino che cerchi»), «οὐδ’ ὁρᾶν ἵν’ εἶ κακοῦ» (v. 367: «non vedi l’abisso in cui sei precipitato»); sentenze di un verso se non di un emistichio, brevi ed ellittiche, proprio a voler condensare in pochissime parole il mistero dell’identità di Edipo.
L’assurdità tragica della vicenda edipica risiede nel fatto che la verità del soggetto sia fuori dal soggetto stesso e la verità dell’oggetto sia, pur ignorata, nel soggetto; in altri termini, la conoscenza che Edipo ha di se stesso è inferiore a quella che, su di lui, hanno Tiresia, Creonte e gli altri personaggi, mentre la verità che Edipo proietta in un altro di cui va alla ricerca (l’assassino di Laio) è in realtà dentro di lui, è egli stesso: la cecità di Edipo non poteva essere maggiore. Da qui la forza della profezia di Tiresia, che rivela tutta la doppiezza insita nel personaggio di Edipo:
Vede, e sarà cieco; è ricco, e sarà mendicante. Vagherà in terra straniera, brancolando col bastone. E si scoprirà che è fratello e padre dei figli con i quali vive, figlio e sposo della donna da cui è nato, assassino del padre con cui ha seminato lo stesso solco, (vv. 454-460).
Tutto, in queste parole, è un ossimoro, si può dire che ogni accostamento di termini sia, evidentemente, ossimorico, perché ossimorica è la condizione esistenziale di Edipo: gli opposti coabitano nella stessa presunta individualità, creando una tensione lacerante che porta alla dissoluzione. Si noti, in questi versi, la presenza di sintagmi nominali, in cui, cioè, non vi è il verbo a mediare e a far transitare la contraddizione semantica dei vocaboli, ma essi sono giustapposti l’uno all’altro, producendo un contrasto semantico fortissimo: «τυφλὸς γὰρ ἐκ δεδορκότος», «πτωχὸς ἀντὶ πλουσίου», «ἀδελφὸς αὑτὸς καὶ πατήρ», «υἱὸς καὶ πόσις», cieco e vedente, mendicante e ricco, fratello e padre, figlio e sposo, lo sdoppiamento di Edipo è massimo.
Eppure egli vuole conoscere, vuole conoscersi, al pari di Narciso, che chiede disperatamente chi sia quel giovane riflesso nell’acqua; Edipo vuole far luce sulla propria identità, inizia a sospettare di non essere colui che credeva di essere, ma non comprende ancora di avere dentro di sé l’Altro che odia e che cerca: «Ποίοισι; μεῖνον· τίς δέ μ’ ἐκφύει βροτῶν;» (v. 437: «Chi? Aspetta. Chi mi ha generato?»), «Οὐκ ἂν γένοιτο τοῦθ’, ὅπως ἐγὼ λαβὼν / σημεῖα τοιαῦτ’ οὐ φανῶ τοὐμὸν γένος» (vv. 1058-1059: «No, non è possibile. Ho già raccolto troppi indizi per rinunciare a fare luce sulla mia nascita»), «Ὁποῖα χρῄζει ῥηγνύτω· τοὐμὸν δ’ ἐγώ, / κεἰ σμικρόν ἐστι, σπέρμ’ ἰδεῖν βουλήσομαι». (vv. 1076-1077: «Si sprigionino tutti i mali del mondo, ma io voglio conoscere la mia origine, per umile che sia»).
Poi, traumatica, riaffiora la verità, ed Edipo comprende dolorosamente non solo di non essere chi pensa di essere, ma, con contraddizione ancor più acuta, di essere colui che non pensa di essere, colui che odia, minaccia e perseguita, in maniera antitetica ma similare a Narciso, quando comprende di essere quell’Altro che ama:
Oh! Oh! Tutto è ormai chiaro. O luce del sole, che io ti veda per l’ultima volta, perché oggi è venuta la rivelazione che sono nato da chi non mi doveva generare, mi sono congiunto con chi dovevo fuggire, ho ucciso chi non dovevo uccidere, (vv. 1182-1185).
Il dramma è al culmine, la verità, ora scoperta, rivela il contrasto insito in Edipo, la cui frantumazione dell’identità è veicolata dalla frantumazione stessa del verso, poiché, come nota Franco Ferrari, vi è una «singolare frantumazione delle sillabe: nove monosillabi consecutivi», a rendere la concitazione tragica del momento. Poi segue lo smarrimento, l’abisso atroce della dissoluzione del sé, la scoperta di essere stranieri a sé stessi, senza una meta né un centro stabile, senza un’identità ultima, crollano le certezze, tramonta il γνῶθι σεαυτόν:
Ah, ah, me infelice! Dove sono? Dove vado? Dove s’invola? Dove si dissolve la mia voce? Ah, destino, dove sei piombato!, (vv. 1306-1310)
L’esistenza si rivela nella sua cruda incomprensibilità, e lo smarrimento di Edipo suona simile al lamento disperato di Narciso «Quid faciam? Roger anne rogem? Quid deinde rogabo?» (v. 465: «Che fare? Essere implorato o implorare? E poi cosa implorare?»), donde l’accecamento del primo e la volontà di staccarsi dal corpo del secondo, come a desiderare di dissolvere definitivamente l’esistenza, insopportabili a sé stessi, incapaci di governare l’Altro dentro di loro, indisposti ad accettare una frammentazione indomabile e non ricomponibile. Interrogato sull’identità di Edipo, Tiresia è reticente, chiestogli se Narciso avrebbe avuto vita lunga, risponde «Si se non noverit», se non conoscerà se stesso, come a dissuadere dal mortifero desiderio di conoscersi, di comprendersi, di riflettere sulla propria identità, poiché, se tale riflessione dovesse mai trovare una risposta, essa non potrebbe essere altro che la dissoluzione di quella consolante menzogna ormai millenaria che ha nome “Io”.
@ILLUS. IN EVIDENZA by PATRICIA MCBEAL, 2022
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