IL “MALORE” ONTOLOGICO (le malheur de la souffrence et le bonheur de la jouissance)
L’«infelicità» dell’essere umano è effetto di una sua costitutiva e incolmabile “manchevolezza” la quale, nel lessico esistenzialista, suona come un manque. La «sfortuna» dell’essere umano sta proprio in questo manque, il quale – gallicamente – procura un vero e proprio incurabile “malore”:
malheur
- s.m.
- 1 disgrazia f., sciagura f., guaio m.
- 2 sfortuna f.
- • par ‹malheur› malauguratamente
Questo “malore”, da cui la coscienza umana è sempre inesorabilmente «affetta», rende tale coscienza «infelice»:
malheureux
- agg. (f. malheureuse)
- 1 infelice
- 2 sfortunato
L’essere e il nulla di Sartre presenta le manque sin dal quinto e penultimo paragrafo della Introduzione, là dove si dice che «l’être de l’objet est un pur non-être. Il se définit comme un manque. C’est ce qui se dérobe…»: l’essere dell’oggetto è un puro non-essere. Esso si definisce come un manque. È ciò che si… defila? È il defilarsi di ogni “roba” oggettuale: ciò che si ‘defila’ da che si ‘profila’ sempre sullo sfondo di niente. Il est vrai que les choses se donnent par profils… Di per sé, ogni oggetto di cui un soggetto viene a conoscenza, è un défaut d’être: un deficit di essere. «Tutto» ciò che un soggetto ‘ha presente’ non sarà mai tutto ciò che egli può ‘aver presente’: lo “spread” che origina il dislivello fra «essere della coscienza soggettiva» ed «esistere della conoscenza oggettiva» apre il buco in cui cade il fallo della falla fra l’in-sé preriflessivo della coscienza e il per-sé riflessivo della conoscenza. Il gioco di forze che sprigiona questa differenza di potenziale è la dialettica mai sopita fra un essere che, pur pre-sentendosi come essere pieno in sé, scopre ogni volta di essere vuoto nella misura in cui, per essere, deve fare spazio a ciò che ‘vuole per sé’: a ciò che ‘desidera per se stesso’.
Così, «in-sé e per-sé» si riflettono all’infinito come fossero in gioco due specchi: la «coscienza del soggetto» (essere) e la «conoscenza dell’oggetto» (ente) si specchiano nella medesima riflessione di un reflet-reflétant, «perché la coscienza è un riflesso, ma proprio in quanto riflesso è riflettente», «infatti ogni presenza implica dualità, quindi separazione almeno virtuale». «La presenza a sé presuppone che una fessura impalpabile si sia infiltrata nell’essere»: la présence à soi suppose qu’une fissure impalpable s’est glissée dans l’être. L’essere del soggetto è “fessurato” ab imis, è bucato, e da questo “buco ontologico” si apre per il soggetto quella fessura che riflettendo il mondo lo riflette riflettendoci sopra nella speculazione cogitante.
Purtroppo per gli umani, però, da questo “buco” ontologico esce il desiderio, fonte di ogni struggimento e anelito, più o meno soddisfatto o insoddisfatto. L’être et le néant di Jean-Paul Sartre (1905-1980) fonda un concetto di desiderio che Jacques Lacan (1901-1981) farà suo: «Le désir est manque d’être», il desiderio è mancanza di essere; ma anche Totalité et Infini di Emmanuel Lévinas (1906-1995) – polemizzando con L’être et le néant – farà suo il concetto di desiderio sartriano e lacaniano, seppur recuperandone quella dimensione metafisicamente ontoteologica generalmente abrogata dai filosofi dell’esistenza, Sartre in testa. Le désir. Sia Sartre sia Lévinas reinterpretano il cogito cartesiano tenendone ferma la conclusione fondamentale, la trascendenza, che Sartre interpreta egologicamente (ontologicamente) e Lévinas teologicamente (metafisicamente). Per Lévinas l’idée de l’Infini déborde la pensée, l’idea di Infinito eccede il pensiero, con conseguente aspirazione infinita del Desiderio a una soddisazione che non è raggiungibile così lo può essere quando si vuole soddisfare un bisogno; le besoin non è le désir. Così, al trascendente “malore” ontologico di Sartre, Lévinas aggiunge il transascendente “malessere” metafisico.
Il desistenzialismo si ribella a questa doppia soma e oppone una resistenza irriducibile. Il bisogno cerca la soddisfazione nella totalità mondana, il desiderio ricerca l’appagamento nell’infinito oltremondano: a noi non piace né aver bisogno né avere desiderio; a noi non piace questo morboso compiacimento che sartriani e lévinassiani mostrano per la croce della trascendenza. La trascendenza è una croce, sia che voglia salire al “calvario” della mondana soddisfazione del bisogno, sia che voglia salire al “calvario” della oltremondana aspirazione del desiderio; sempre di calvario si tratta. A noi non piace la “via crucis” della trascendenza. A noi non piace il “calvario” del trascendente. A noi non piace trascendere. Meglio sarebbe essere animali, e crogiolarsi incoscientemente nel brago della propria bassezza. Noi mettiamo alla gogna la vergogna dell’agognare. Vergogna! Ma che piacere ci trovate, nell’agognare cronico e sistemico della condizione umana? Agognare nell’agone di questo mondo per poi morire sperando di non finire del tutto nell’agonia terminale? Agognare e agonizzare sono etimologicamente parenti, non è un mistero; agognare è un’agonia. C’è un terribile masochismo (ed anche sadismo) nel morboso attaccamento all’esistenza che sartriani e lévinassiani mostrano senza remore e senza pudore. Crogiolarsi nel brago, agognare l’agonia… Masochisti! Sadici! Cultori dell’esistenza!
Personalmente, ritengo molto suggestivo ricondurre il tentativo mai dismesso dall’umano di tentare ciò da cui è tentato (di saggiare ciò da cui è saggiato) al gesto di Eva delineato da Genesi: tastare la mela come tentativo dell’Io di attestare la possibilità di una conoscenza malsana da che «attenta a» quella sicurezza di sé che in seno all’essere di Dio era certezza come verità intangibile “sentita” nella preriflessività di una coscienza non ancora toccata dalla riflessività della conoscenza.
Sartre parla di une pure maladie de l’être (una pura malattia dell’essere) che deriva dal fatto di essere, l’umano, à soi-même là-bas: per se stesso laggiù. Certo! – dice l’ontoteologo –, certo! L’umano è l’essere che si trova là in basso, là dabbasso, là, giù, laggiù: in questa valle di lacrime… e l’ontoegologo rincara la dose: ma sì, certo, egli si trova comme s’il y avait une passion du pour-soi (come se ci fosse una passione del per sé). La coscienza è infelice, dice l’ontoegologo, perché è stata disgraziata, dice l’ontoteologo: s’è ficcata nella fossa che lei stessa s’è scavata fra ciò che era in-sé (Essere) e ciò che voleva per-sé (Esistere)!
Lévinas parla della jouissance du bonheur là dove individua nella ‘goduria della spensieratezza’ il sintomo essenziale dell’ipseità – l’ipséité – originata dalla separazione – la séparation – dell’Io dall’Altro (umano), anzi, in questo caso, soprattutto da Altri (divino). La concezione lévinasiana di “interiorità” è quella di un Ego che si barrica in se stesso godendo dell’autarchia autosufficiente che lo ripara dall’inferno dell’Alter. Una sorta di Eden terrestre raffigurabile esattamente come un “giardino”, dacché «ogni godimento, in questo senso, è alimentazione»: Toute jouissance dans ce sens, est alimentation. Il manque dei bisogni fisici sembra una fortuna goduriosa, rispetto al manque dei desideri metafisici originante la sfortuna dolorosa dell’angoscia. Già Sartre aveva impietosamente denunciato la jouissance come essenzialmente «appropriativa», possessiva, gelosa e reificante nella sua brama famelica di oggettivazione, al punto da poter concordare con Hegel dicendo che «il desiderio distrugge il suo oggetto» (di desiderio), le désir détruit son objet, sì che «il desiderio è desiderio di mangiare», le désir est désir de manger; ma, si noti, quando Sartre lamenta il fatto che il desiderio distrugge il suo oggetto, dice che Le malheur est que… la sfortuna è che (le désir détruit son objet).
Per il buontempone il tempo della vita è goduria – jouissance – come tempo per «vivere di…»: «vivre de…»; secondo la lezione di Lévinas. L’amore della (per la) vita, L’amour de la vie, è la voglia ontologica prioritaria e primaria dell’esistenza: l’envie – la voglia – di essere «in vita» – en vie –; envier = être en vie / invidiare = essere in vita. Ma siccome envie significa sia «invidia» sia «voglia», envier deve significare sia «invidiare» sia «volere»: la via della vita è odalgicamente malessere di una vie – vita – che è envie – voglia –; ed è voglia – envie – da che è invidia per un essere che non si è, vivere per come si è eppure morire di invidia per come non si è (così come vuole il ritornello sartriano secondo il quale l’uomo «è ciò che non è, e non è ciò che è»).
Che Lévinas non sia un desistente (ancor meno di Sartre) lo si capisce da frasi come questa: «La vita è amata da sempre», D’ores et déjà la vie est aimée. Certo, lui lo dice criticando la prospettiva egologica dello psichismo per denunciare un “autismo” dell’anima che, chiudendosi in se stessa, si preclude l’apertura attraverso la quale, solo, essa può adire l’infinito; ma, l’ottimista e credente Lévinas, non ha certo in uggia la vita, perché «All’origine c’è un essere appagato, un cittadino del paradiso» – A l’origine, il y a un être comblé, un citoyen du paradis. – e «Il dolore, lungi dal mettere in questione la vita sensibile, si situa nei suoi orizzonti e di riferisce alla gioia di vivere» – La douleur, loin de mettre la vie sensible en question, se place dans ses horizons et se référe à la joie de vivre –. Io direi addirittura che la joie de vivre di Lévinas sta alla sua jouissance come der Wille zum Leben di Schopenhauer sta al suo das Leben (il vivere / la vita) e a das Lieben (l’amare / l’amore): al volere che a priori muove ogni mozione e ogni commozione.
la joie de vivre : la jouissance = der Wille zum Leben : das Wollen
ovviamente, das Wollen è der Wille in quanto die Lust: la brama cupida e smaniosa della lubrica gioia di vivere. L’uomo è un lombrico, perciò è lubrico. Va di corpo, l’uomo, brama cose che “fanno andare”… è un verme di terra, l’uomo, brama pommes de terre, mele di terra, patate… brama come bramò Eva, la quale prese una mela per mangiare la conoscenza: connaître c’est manger. Il peccato originale diede la stura alla jouissance irresponsabile dell’umanità, la quale, da allora, ormai lungi dal mettere la vita in questione, si apposta saldamente nei suoi orizzonti esistenziali e si rintana grettamente nella miopia di una prospettiva delimitata dall’angusto paraocchi che i greci chiamavano ὁ τοῦ ὁρίζοντος κύκλος (il cerchio dell’orizzonte) cioè, tout court, ὁρίζων (-οντος, ὁ), l’origine prima di ogni delimitare – ὁρίζω – originante definizioni terrestri ben localizzabili topograficamente. L’uomo in trincea, lombrico lubrico, marcisce nella terra per difendersi dal cielo, marcia nel bisogno per ripararsi dal desiderio: si para il culo per coprirsi l’anima.
Purtroppo, di primo acchito, Lévinas sembrerebbe aver ragione, nel dire che «Qualsiasi opposizione alla vita si rifugia nella vita e si riferisce ai suoi valori», Toute opposition à la vie, se réfugie dans la vie et se réfère à ses valeurs, ma non è così: egli credeva di aver ragione solo perché, evidentemente, non aveva mai conosciuto un vero desistente che lo facesse ragionare; perciò egli non aveva affatto ragione: aveva torto. Il desistente, eroico combattente, oppone resistenza alla vita: la sua resistenza è proprio quella che non tradisce la sofferenza umana, la resistenza valorosa di chi non collabora mai con la foia di vita che trascina in questo mondo gli innocenti nascituri di là da venire; il desistente non è un lurido e lubrico collaborazionista, come l’esistente buontempone della jouissance: egli desiste perché diserta, diserta con la sua mirabile e sublime obiezione di coscienza la carneficina esistenziale che condanna alla pena capitale tutti coloro che non defezionano; il desistente, disertando la leva obbligatoria della levatrice, offre il congedo illimitato prima ancora che l’esistente parta per la guerra della vita: chi è così lungimirante e munifico come il desistente, che sacrifica la propria egoistica jouissance della procreazione per preservare (con il preservativo) i suoi figli potenziali dal mūnŭs, ĕris, (n.) del dovere, tutt’altro che deontologicamente corretto, del cosiddeto dono della vita! Il desistente non è un funzionario della specie e per questo non impone un munus facendo credere che sia munifico: non impone un dono sapendo che esso richiede un condono; non dona una giustizia che dev’essere giustiziata per diventare giusta.
Perciò, caro Lévinas, sappi che hai torto, quando dici che «Il bisogno è amato, l’uomo è felice di avere dei bisogni»: Le besoin s’aime, l’homme est heureux d’avoir des besoins. Questo vale purtroppo solo per les hommes-de-terre, les vers (i vermi umani), ma non per noi, desistenti; noi crediamo che l’uomo non dovrebbe affatto fare il verme-di-terra (lombrico), perché “fatto non fu per viver da lombrico”, e se la mela edenica creduta pomo d’oro si rivelò invece pomme-de-terre, ebbene, noi non essendo patatoni ci rifiutiamo di mangiare solo patate o falsi pomodori: non ci piacciono le patacche e preferiamo piuttosto digiunare per protesta fin che morte non separi, una buona volta, l’uomo dall’umanità.
Due gli stati d’animo: le bonheur de la jouissance et le malheur de la souffrance. L’essere umano ha una doppia faccia, o, se si preferisce, una faccia sola con due espressioni, due maschere: la masque de la jouissance et la masque de la souffrance. Siccome «maschera» in latino si dice persōna, ae, (f.) noi diremo allora che homo persona tristitiae et persona laetitiae est.
L’immagine in evidenza è la rielaborazione di un’opera grandguignolesca di Gunther Von Hagens.
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@ILLUS. by MAGUDA FLAZZIDE, 2020