IL GIOVANE ALIENISTA: MARX E L’UMANESIMO RADICALE
Mentre un celebre spettro, seppur non propriamente connotato e d’aspetto ancora nebuloso, cominciava a impensierire l’Europa col clangore delle sue catene, un giovane filosofo era alle prese con la prima decisiva stesura dei nuclei fondamentali del suo nascente pensiero. Lo spettro in questione, beninteso, è quello del comunismo, mentre il giovane pensatore è Karl Marx, a quel tempo, nel 1844, appena ventiseienne e domiciliato a Parigi. Si può dire che in quel particolare momento della sua vita Marx stesse fronteggiando i propri personalissimi spettri, e che il soggiorno parigino contribuì in maniera decisiva alla dissipazione di alcuni di essi e alla chiarificazione di quelle che sarebbero state le direttive programmatiche del suo itinerario filosofico ed esistenziale.
Risalgono alla sua permanenza nella capitale francese alcuni cruciali incontri quali quello con Engels (a onor del vero non il primo in assoluto, ma sicuramente quello che maggiormente contribuì ad avvicinare i due amici) e quello con Proudhon, forse il più caparbio interlocutore del Marx della prima ora. Sempre a Parigi il giovane Marx ebbe occasione di approfondire da vicino gli aspetti più vividi della vita operaia e proletaria, dialogando attivamente con le corporazioni artigiane attive sul territorio. Si può, infine, ascrivere a questo particolare momento storico il passaggio del nostro autore alla sua fase matura, coincidente col suo distacco (più formale che effettivo) da Hegel e dalla cosiddetta sinistra hegeliana. Tutti questi interni smottamenti sono stati raccolti nelle carte che ora costituiscono i Manoscritti economico-filosofici (anche detti semplicemente Manoscritti del 1844) e che, articolati in tre sezioni (i manoscritti componenti, per l’appunto), offrono un’immagine estremamente pervasiva di ciò che animava allora le intime riflessioni di Marx, ovvero di quei nodi centrali che avrebbero in futuro costituito il perno del suo pensiero filosofico. I Manoscritti possono perciò essere considerati, utilizzando una metafora, come una sorta di officina all’aperto ove sia possibile osservare il pensiero di Marx nel suo farsi progressivo, di fatto sviscerando, manoscritto dopo manoscritto, i grandi temi oggi divenuti canonici all’interno del dibattito marxista.
Due considerazioni conferiscono a questi documenti un rilievo particolare. Innanzitutto, il fatto che la loro pubblicazione venne procrastinata fino al 1932 li rese sconosciuti anche ad alcuni dei più importanti propugnatori e interpreti del pensiero marxista. Non poterono leggerli, per dare solo un paio di celebri esempi, né Lenin né Gramsci. In seconda battuta sarà opportuno notare quanto i Manoscritti, redatti da un pensatore ventiseienne agli albori della propria carriera filosofica e in un periodo storico a noi piuttosto remoto, abbiano mantenuto una sconcertante attualità. Proponendo, infatti, le idee di un Marx umanista e non ancora assorbito completamente nella speculazione teorico-economica che sarà propria del Capitale (emblematicamente sottotitolato Critica dell’economia politica), i Manoscritti possono essere letti come una sorta di foglietto illustrativo delle controindicazioni di un sistema sociale, quale il nostro, in cui domina senza freni ciò che Gramsci chiamò, con espressione pittoresca, il “cretinismo economico”.
Tra gli spettri di cui Marx si sta occupando in quel momento spiccano, infatti, tutti quegli aspetti legati alla dimensione alienata e alienante che vengono prodotti dal vigente impianto economico-sociale del suo tempo (e del nostro). L’alienazione, si potrebbe dire senza operare alcuna forzatura interpretativa, è la vera protagonista dei Manoscritti. Giunta a Marx per il tramite della riflessione feuerbachiana, che però si limitava ad applicarla al solo contesto teologico, l’alienazione costituisce una sorta di filo rosso che connette tra loro i vari saggi che compongono l’opera. Marx utilizza gli arnesi offerti da Feuerbach, opportunamente rimodulati, per sintetizzare alcuni basilari meccanismi del sistema capitalistico e mettere in guardia gli uomini dai pericoli ad essi sottesi.
È il caso del lavoro appunto detto alienato, di cui Marx offre questa sinistra descrizione appaiandola proprio all’esempio della religione:
Lo stesso accade nella religione. Quante più cose l’uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in sé stesso. L’operaio ripone la sua vita nell’oggetto; ma d’ora in poi la sua vita non appartiene più a lui, ma all’oggetto. Quanto più grande dunque è questa attività, tanto più l’operaio è privo di oggetto. Quello che è il prodotto del suo lavoro, non è egli stesso. Quanto più grande è dunque questo prodotto, tanto più piccolo è egli stesso. L’alienazione dell’operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per sé stante; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea.
Si delinea qui, per contrapposizione, la concezione antropologica di Marx. L’uomo dovrebbe, in linea di principio, essere una cosa sola con il suo lavoro. L’attività creatrice dell’uomo dovrebbe essere da lui interiormente sentita come qualcosa di facente parte genuinamente del suo essere più autentico. Ma a questa visione facente capo a un umanesimo puro e radicale, si oppone la cruda realtà di un mondo in cui quanto più il lavoratore profonde i suoi sforzi nella sua attività, tanto meno avverte in essa quell’intimo legame che dovrebbe rendergliela gradita. Il risultato è che il lavoro diviene qualcosa di altro, di estraneo, di esteriore, un obbligo vissuto come qualcosa che viene dall’esterno e che, anziché contribuire alla realizzazione umana, ne soffoca il nerbo, allo stesso modo in cui la divinità alienata di Feuerbach si erge a padrona altera dell’umanità sottomessa. Nefasta conseguenza dell’intero processo è la perdita del vero sé dell’uomo, il quale smarrisce così la padronanza del proprio essere. Infatti, così come l’oggetto del proprio lavoro viene vissuto come altro da sé, anche l’attività medesima viene di fatto consegnata in mani altrui. Non si lavora per sé stessi, ma per altri (ovverosia per un datore di lavoro), e la propria prestazione appartiene ad altri nella misura in cui può essere reificata, trasformata in un oggetto alienato che può essere venduto e comprato.
È la più totale e straniante mercificazione dell’uomo e del suo agire. Ed è, purtroppo per noi, l’aspetto più attuale dei Manoscritti del 1844. Sebbene, rispetto al tempo di Marx, siano profondamente mutati i contesti sociali e le dinamiche di interazione tra classi, lo spettro della mercificazione alienante del reale è cosa che oggi più che mai infesta il nostro modus vivendi. Non esiste, se scorriamo il volume della storia umana, un’epoca tanto alienata (e alienante) come quella odierna. Ogni uomo è oggi ridotto allo stato di merce, di fatto configurandosi non come individuo costituito da un organico amalgama di esperienze, inclinazioni, valori e bisogni; bensì come un pacchetto di features più o meno spendibili all’interno di quello che, con espressione che già suggerisce un distacco dalla vita ordinaria, viene chiamato “mondo del lavoro”. Ogni individuo, volente o nolente, deve declinare le proprie caratteristiche in modo che esse si confacciano a quanto il mercato richiede, convertendo ogni aspetto della propria persona in termini operazionali e calcolabili. Si viene dunque a parlare di hard e soft skills, di capacità di problem solving, di tensione al risultato e di tutta una serie di parole ed espressioni chiave che definiscono e delineano la più o meno apprezzabile appetibilità di un individuo in termini produttivi. E sono gli individui medesimi, ormai del tutto assorbiti da un’organizzazione sociale siffatta, a levigare il proprio profilo seguendo queste direttive e tentando di presentarsi come il miglior prodotto sul mercato. Il nome che questo pratica ha assunto è personal branding, ed è oggi celebrata dai più fieri campioni del “cretinismo economico” come la via maestra per giungere al successo.
Il successo, va da sé, potrà esso stesso essere misurato in termini quantitativi per mezzo di un altro spettro di Marx: il denaro. A differenza dei precedenti, più sottili e ascosi, il denaro si presenta con la sua peculiare corporeità e materialità. È, come lo definisce Marx per bocca di Shakespeare, la divinità visibile, meretrice e mezzana universale degli uomini e dei popoli. Di seguito alcune colorite espressioni con cui il poeta, nel Timone di Atene, esprime il suo greve parere in merito:
Questo giallo schiavo unisce e infrange le fedi; benedice i maledetti; rende gradita l’orrida lebbra; onora i ladri e dà loro titoli, riverenze, lode nel consesso dei senatori. È desso che fa risposare la vedova afflitta; colei che l’ospedale e le piaghe ulcerose fanno apparire disgustosa, esso profuma e prepara di nuovo giovane per il giorno d’aprile. Avanti, o dannato metallo, tu prostituta comune dell’umanità, che rechi la discordia tra i popoli…
Ciò che Shakespeare esprime con poche ma decise pennellate viene da Marx svolto filosoficamente in accordo con la consueta chiave di lettura che fa capo al principio dell’alienazione. Il denaro non è altro che il potere alienato dell’umanità. L’io alienato di cui sopra si è discusso prende corpo nel “dannato metallo”, il quale si configura come ciò che l’uomo può fare, ovvero ciò che può, col suo potere d’acquisto, comprare. E ciò che posso, ça va sans dire, è ciò che sono, la mia più intima essenza (almeno nella logica del cretinismo economico). La conseguenza su cui Marx si sofferma è che ciò che sono e posso, dunque, non dipende dalla mia individualità. Di fatto essa smette di esistere nel momento in cui ogni essere umano perde le proprie facoltà peculiari per diventare una semplice somma, uno stipendio, un contratto, un ammontare. Il denaro costituisce, dunque, la generalizzazione e l’omologazione suprema di tutto il genere umano. Marx delinea ciò in modo estremamente chiaro:
Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l’effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono; il denaro inoltre mi toglie la pena di esser disonesto; e quindi si presume che io sia onesto. Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede?
Si vede da questo passo come ciò a cui siamo maggiormente volti, la ricchezza in forma di denaro, non sia altro che l’ennesima manifestazione di un processo sotterraneo di alienazione e rovesciamento. Il denaro è infatti il rovesciamento di tutte le qualità umane. Tutto ciò che non posso essere come individuo lo posso diventare (in forma alienata e generalizzata) per grazia del denaro. I soldi possono rendere una persona tutto quello che non è, cioè il suo contrario. Viviamo, dunque, in un mondo che confonde e smarrisce perpetuamente il confine tra la dimensione dell’essere e quella dell’avere, convinti che la seconda possa condurci senza fallo alla prima.
La sempreverde attualità del primo Marx, con le sue acute e inflessibili disamine, può costituire un viatico per la costituzione di una nuova coscienza sociale che possa opporsi con forza alle contraddizioni del reale, così palesi eppure così subdole che ad oggi, dopo 176 anni dal loro svelamento, ancora permangono immutate e anzi potenziate in un mondo che avrebbe un disperato bisogno di ammainarle una volta per tutte, sotto l’insegna di un umanesimo veramente radicale.
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