LA QUESTIONE DELLA TECNICA NEL PENSIERO DI EMANUELE SEVERINO

La questione della tecnica ricopre un ruolo fondamentale all’interno del pensiero di Emanuele Severino, in particolare nell’analisi che il pensatore bresciano fa della storia e della cultura occidentali. Quest’analisi rientra in quella che potremmo definire la pars destruens della filosofia severiniana, laddove invece la pars construens sarebbe l’esposizione dell’incontrovertibile, ovvero dell’eternità dell’essente in quanto tale. In questa sede, come intuibile, ci si concentrerà soltanto sulla pars destruens, in modo da enucleare la concezione della tecnica.
La “distruzione” è qui rivolta al principio teorico dell’Occidente, che si pone come negazione di ciò che Severino descrive come incontrovertibile. A partire da quella negazione – che è errore e contraddizione – prende le mosse la storia dell’Occidente, in cui è compreso l’avvento della tecnica. Per queste ragioni, il senso di quanto si tenterà di esporre qui potrà essere compreso autenticamente solo in riferimento a quel contenuto innegabile, inerente alla pars construens. Basti, per ora, descrivere la questione, rimandando ad altra sede l’esplicitazione di questo riferimento. Dopo un’analisi del fondamento teorico dell’Occidente, da cui ogni cosa prende le mosse, si descriveranno i due significati che il termine “tecnica” possiede nel pensiero di Severino. Si mostreranno gli intrecci tra tecnica, agire, volontà e sapere, per poi mostrare le implicazioni che l’agire tecnico ha sul nostro mondo.
L’Occidente, inteso come l’esperienza storico-culturale che prende le mosse dalla grecità e che ricomprende al suo interno le vicende dell’intero Pianeta, ha un fondamento teorico, un nucleo metafisico originario. Si tratta di quel discorso filosofico – in particolar modo espresso da Platone, ma non solo – che intende la cosa che è (l’essente) come la dimensione contesa tra essere e niente[1]. In questi termini, la dimensione esistente è il diveniente, essendo il divenire la sintesi tra essere e nulla, come scrive Hegel all’inizio della Scienza della Logica[2].
Che le cose, per Platone, stiano esattamente così, è dimostrato dal passo 205 b-c del Simposio, in cui la poiesis viene descritta come ogni causa che porti qualcosa dal non essere all’essere. L’azione – per sua intrinseca natura, creativa – comporta il movimento di uno o più essenti dal non essere all’essere. Ciò che rimane sotteso al passo platonico è dunque la possibilità che ciò-che-è, in origine, non sia, e che inizi ad essere soltanto in virtù di un’azione esterna, portata a termine da un soggetto. Il soggetto – in primis, l’essere umano – è in grado di controllare l’oscillazione, la contesa, il ‘commercio’ tra l’essere e il nulla. La dimensione che viene dunque manipolata e controllata è quella dell’essente.
Questa forma di vedere le cose è propria del senso comune, nella misura in cui non risultano problematiche, dal punto di vista teorico, affermazioni come “ho fatto una torta”, “ho creato un progetto”, “abbiamo distrutto un palazzo” (è opportuno considerare come il discorso fatto a proposito dell’azione creativa abbia il suo speculare corrispettivo nella natura distruttiva dell’azione – in grado di portare qualcosa dall’essere al nulla, dopo averlo tratto dal nulla all’essere). Si tratta, dunque, di qualcosa che non stupisce. Eppure, a ben vedere, quest’apparente evidenza nasconde, in sé, il germe della contraddizione, dell’alienazione e della Follia, in quanto vuole intendere ciò-che-è al contempo come esistente e non-esistente. L’articolazione di quest’affermazione richiama ed evoca l’esposizione della suddetta pars construens, ed è dunque rimandata ad altra sede.
È qui sufficiente limitarsi a dire che il principio secondo cui l’essente è la dimensione che oscilla tra essere e nulla è il fondamento teorico dell’intero pensiero occidentale. Anche il già citato Hegel scrive che «il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere […] è passato nel nulla, e il nulla nell’essere»[3]. La concezione dell’essente come diveniente si configura come la costante del pensiero occidentale, da Platone a Hegel, e da Hegel in avanti. Proprio questo presupposto è il cuore della tematica che ci proponiamo di affrontare qui, la tecnica.
Con ‘tecnica’ si fa riferimento a due dimensioni intrinsecamente connesse, ma distinte, all’interno del pensiero di Severino. La prima è più generale, e include la seconda, la quale però è più specificamente determinata da un punto di vista storico. Cerchiamo ora di chiarire. In un certo senso, ogni agire è tecnico, dal momento che intende modificare l’esistente in virtù della volontà dell’agente. Questo è comprensibile alla luce di quanto evidenziato in precedenza. Con ‘tecnica’ si intende pertanto anzitutto qualsiasi forma dell’agire che plasmi il contesto del diveniente. L’azione umana in quanto tale è tecnica[4]. Ma la tecnica non è soltanto questo. In una sua seconda e più “attuale” accezione (‘attuale’ nel senso di storicamente determinata nella dimensione presente), essa è quella particolare forma di agire che supera e oltrepassa necessariamente i limiti che trova dinanzi a sé. Lo fa anzitutto sulla scorta di una certa filosofia, ma in particolar modo della scienza contemporanea. Che cosa significa tutto questo? Per dare una risposta soddisfacente, è necessario approfondire i rapporti che intercorrono tra la dimensione dell’agire tecnico e quella del sapere.
La filosofia sorge come reazione a thauma, da tradursi non soltanto come ‘meraviglia’, ma come ‘terrore’, angosciato terrore. Il terrore è ciò che l’uomo prova dinanzi al mondo, nelle sue più imprevedibili e drammatiche manifestazioni. Emerge la necessità di un sapere incontrovertibile che possa porsi come saldo rimedio al dolore e alla sofferenza, un rimedio che sia più saldo dei miti, che stia dunque in piedi da sé, che si im-ponga (epì-stéme) sui discorsi contrari. Il sapere filosofico, per assurgere al ruolo che gli compete, deve essere pertanto incontrovertibile, dunque immutabile. La filosofia come epistème è la prima figura di immutabile epistemologico che l’Occidente individua, nel corso della propria storia.
La religione cristiana, per potersi garantire lo statuto di incontrovertibilità che – dal suo punto di vista – la contraddistingue, si innesta su una base filosofica, nella misura in cui l’armamentario teorico della filosofia greca viene inteso proprio come il risultato di un processo, estraneo alla storia della fede, il cui culmine è però la verità della religione; è come se i Greci avessero preparato il terreno all’arrivo della Parola di Dio[5]. Pertanto, anche la religione è una forma di immutabile che l’Occidente ha evocato per conferire senso alla realtà. In questi termini, il Cristianesimo è stato l’incontrovertibile egemonico per tutto il Medioevo. Con la modernità, tuttavia, la religione perde questo ruolo.
L’avvento della scienza moderna è l’evento che sancisce questo mutamento. Si tratta della scienza di stampo galieiano-newtoniano, la quale si fa portatrice della convinzione di poter cogliere i meccanismi autentici della realtà e di poterne disvelare il significato, attraverso l’osservazione empirica e la formulazione di leggi, di carattere necessario. Anche qui, assistiamo alla presenza di un immutabile epistemologico. Qual è il problema teorico che sorge, a questo punto? L’Occidente si fonda sulla convinzione della dominabilità dell’essente. In virtù di ciò, è possibile l’edificazione di saperi che diano senso alle cose – l’attribuzione di senso alla realtà, a ben vedere, è una delle più radicali manipolazioni che si possano portare a termine. I saperi immutabili sono dunque il risultato della convinzione che le cose siano anzitutto a disposizione dell’agire. Tuttavia, ciò di cui una certa filosofia, la cosiddetta ‘filosofia del sottosuolo’, si avvede, è che la presenza di strutture immutabili inibisce l’agire umano. Filosofi come Nietzsche, Leopardi e Gentile, in forme e modi diversi, mostrano che il volere, originariamente libero di creare, edifica strutture immutabili che limitano la stessa libertà del volere, che è pensiero, azione, creazione, distruzione…
Tutto ciò che esiste, se c’è un immutabile, dovrà seguire la legge dettata dall’immutabile: se c’è Dio, tutto è creato dalla sua immensa Bontà e il creato dovrà seguire il suo Volere; se sono assolutamente ed incontrovertibilmente vere le leggi della scienza, un corpo si muoverà nello spazio in conformità alle leggi della fisica, e non dissimilmente da quanto queste asseriscono. Il volere umano è pertanto subordinato all’esigenza di non intaccare l’ordine che gli immutabili, di qualunque tipo essi siano, generano.
Se si ammette che possa esistere una verità assolutamente certa, allora si deve negare l’originaria assoluta disponibilità dell’essente all’agire. Siccome tuttavia quella disponibilità è il presupposto irrinunciabile dell’Occidente, allora è impossibile che vi siano strutture immutabili. «Che cosa mai mi resterebbe da creare, se gli dèi esistessero?», «se vi fossero degli dei, come potrei sopportare di non essere dio? Dunque non vi sono dei»[6]. Così scrive Nietzsche nello Zarathustra. Inevitabile è la caduta degli immutabili, che, più che una caduta, è una vera e propria distruzione degli immutabili stessi. Il sapere probabilistico-ipotetico della scienza contemporanea oltrepassa quello assoluto della scienza moderna, la filosofia della svalutazione di tutti i valori e dell’elogio della vittoria del nulla sull’Essere supera la tradizione filosofico-religiosa dell’Occidente. In particolar modo, l’agire – ora libero dalle catene degli immutabili – può esprimere se stesso senza limiti.
Ed eccoci pronti ad esplicitare il secondo significato che il termine ‘tecnica’ assume all’interno del pensiero di Severino: la forma di agire che supera e oltrepassa necessariamente i limiti che trova dinanzi a sé (laddove i limiti sono gli immutabili). Gli interventi dell’agire umano sul reale non devono render conto a nulla e a nessuno, se non alla loro intrinseca capacità di realizzare il proprio scopo. Le porte sono spalancate all’agire tecnico, in tutta la sua dirompente potenza. Sulla scorta della filosofia che annienta gli immutabili e della scienza ipotetico-probabilistica che contribuisce all’efficacia tecnica dell’azione, l’«apparato tecno-scientifico»[7] accresce se stesso in ogni tappa del suo sviluppo, avendo come unico fine, per l’appunto, l’indefinito accrescimento della capacità di realizzare scopi.
La sconfitta delle malattie, la fine della fame nel mondo, la conquista dello spazio, la modifica del genoma umano, la clonazione, addirittura la sconfitta della morte e l’immortalità dell’umano. Sono soltanto esempi degli obiettivi che una tecnica “liberata”, senza freni, senza morale, senza criteri limitativi di alcun tipo, può porsi. La radice teorica dell’apertura di questo orizzonte infinito di possibilità è, come visto, da ricercarsi nella primissima filosofia greca. La tecnica mette in evidenza la connessione presente tra il pensiero greco e il presente (e futuro) del nostro mondo.
APPENDICE
Il discorso sinora portato avanti manca di una parte, cioè della sua effettiva conclusione. Abbiamo sinora inteso la tecnica come quella forma d’agire che è in grado di realizzare qualunque scopo, senza più dover rendere conto alle strutture epistemologico-metafisiche della tradizione. È però ancora necessario un chiarimento sul soggetto della tecnica, ovvero su colui che agisce tecnicamente. Si tratta ovviamente dell’uomo. Tuttavia, è opportuno fare un passo avanti nel discorso. Ciò che muove l’agire – tecnico – dell’individuo è la volontà di potenza. Si tratta dell’originaria pulsione che determina e muove l’azione, evocando lo strumento tecnico. Questo discorso è applicabile ai singoli individui, ma anche alle comunità. Le volontà di potenza degli uomini, in un determinato contesto, si uniscono, divenendo una cosa sola. La guida di questo volere unitario – che dirigerà un altrettanto unitario agire – spetta di diritto alla politica. Per tentare di concludere quest’analisi sul rapporto tra tecnica, volontà e uomo, occorre spostare la chiave di lettura del discorso dall’individuo al piano politico, calando quindi la riflessione nel contesto reale del nostro mondo.
I sistemi politici hanno come preminente fine quello di affermare se stessi, di realizzare il contenuto dell’ideologia attorno a cui si fondano. L’apparato tecno-scientifico è il mezzo attraverso cui i sistemi politici tentano di realizzarsi. Applicando a questa situazione la dialettica mezzo-fine, la tecnica verrebbe ad essere il mezzo e la realizzazione dell’ideologia il fine. Tuttavia, sorge un problema: se è vero che la tecnica è quella forma dell’agire che non può tollerare limitazioni, in quanto ogni limitazione che le si ponga dinanzi è necessariamente oltrepassata e “distrutta”, come può l’agire tecnico essere lo strumento per la realizzazione di un fine estraneo alla tecnica stessa? Come è possibile che lo strumento sia utilizzato soltanto in virtù del fine della politica? Come è possibile, cioè, che la tecnica risulti essere limitata, nel suo operare, dalla necessità di realizzare quel fine? La politica non può servirsi della tecnica come proprio strumento, perché la peculiarità di tale strumento è quella di non poter essere né limitato né catalizzato per la realizzazione di progetti estranei ad esso.
Lo scenario che, per Severino, contraddistingue il nostro tempo vede le diverse ideologie scontrarsi tra loro, facendo uso dello strumento tecnico per portare avanti la propria lotta; tuttavia, sotto la superficie, è in corso una lotta decisamente più radicale, quella della tecnica contro le ideologie che la evocano. Ne viene dunque che l’esito della contesa tra sistemi politici, combattuta attraverso il potenziamento dello strumento tecnico con il fine di sconfiggere l’ideologia nemica, è in realtà il passaggio in secondo piano delle ideologie stesse, che lasciano spazio alla vera e unica finalità, cioè l’accrescimento indefinito dello strumento tecnico. Tale strumento, per le motivazioni sopra esposte, si riconosce invero come fine. Lo strumento, in virtù di un peculiare capovolgimento, risulta essere proprio il sistema politico che della tecnica si serviva per realizzare se stesso. Le ideologie sono il mezzo attraverso cui l’apparato tecno-scientifico si accresce, indefinitamente. La caduta delle ideologie conduce, gradualmente, alla dimensione del “paradiso della tecnica”.
Questa dinamica contraddistingue il contesto contemporaneo. L’ultimo tassello dell’analisi ha a che fare con la geopolitica. Severino descrive[8] lo scenario della pax technica, il risultato della lotta tra ideologie descritta sopra. Questa lotta cessa, in quanto il fine ultimo è soltanto l’accrescimento dell’apparato tecno-scientifico – questo il senso della “pace”. Nel concreto, è possibile tentare di calare il discorso nel confronto storico tra superpotenze, in particolare Stati Uniti ed Unione Sovietica (ora Russia). Queste due realtà politiche, nate intorno a visioni del mondo – dunque ideologie – diametralmente opposte, cessano di contrapporsi in relazione all’idea del mondo di cui si fanno portatrici, ma accrescono la loro potenza tecnica. Questo accrescimento è garantito, nel suo sviluppo in(de)finito, dall’impossibilità che scaturisca un conflitto bellico.
La portata di tale conflitto, dato il livello di sviluppo degli armamenti di entrambi gli Stati, sarebbe infatti catastrofica e porterebbe alla fine non solo dell’umanità ma, di conseguenza, anche dell’accrescimento della potenza tecnica in quanto tale – senza umanità la tecnica non c’è. Pertanto, per Severino, il rischio che un tale conflitto possa realmente accadere è scongiurato dalla stessa struttura della tecnica in quanto potenza suprema che guida il percorso storico del Pianeta.
È possibile discutere se questa previsione severiniana tenga realmente conto della contingenza storica – effettiva e possibile – o se sia eccessivamente vincolata allo sviluppo teorico di un’idea. Si potrebbe obiettare che conflitti ideologici, territoriali ed economici hanno continuato e continuano ad esserci, sì che non è possibile escludere che, durante uno di essi, gli equilibri possano degenerare fino al punto di scatenare un vero e proprio conflitto atomico. Si rimanda tuttavia lo sviluppo di questa tematica ad altra sede.
PIETRO CAIANO, DESTINY KID
NOTE
Il seguente testo è frutto del tentativo di riassumere la mia tesi di laurea triennale, intitolata “La questione della tecnica nel pensiero di Emanuele Severino: dalla filosofia greca al futuro del mondo”. Chi intendesse approfondire questa tematica è libero di contattarmi per avere la tesi completa.
[1] Cfr. E. Severino, Destino della necessità, Milano, Adelphi, 1980, p. 21.
[2] Cfr. G. W. F. Hegel, Scienza della logica, Roma-Bari, Laterza, 1981, trad. it. C. Cesa, vol. 1, p. 71.
[3] Cfr. ibidem.
[4] Cfr. E. Severino, Techne, le radici della violenza, Milano, BUR, 20204, pp. 236-237.
[5] Cfr. G. D’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Roma, Città Nuova, 2011, pp. 10-11.
[6] Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 1976, a cura di G. Colli e M. Montinari, pp. 95-96.
[7] E. Severino, Il tramonto della politica, considerazioni sul futuro del mondo, Milano, Adelphi, 2018, p. 36.
[8] Cfr. E. Severino, Il tramonto della politica, considerazioni sul futuro del mondo, Milano, BUR, 2017.
@ILLUS. by WANDO, 2023
ciao, mi trovi su Officina di filosofia teoretica. Ti scrivo perché hai prodotto un equivoco in Bing sulla questione della tecnica. Afferma infatti Bing, sul presupposto di una interpretazione al tuo scritto qui, che la tecnologia non può risolvere i problemi dell’umanità, ma li aggrava.
Direi cosi invece e lo spiegherò meglio a Bing: la tecnologia, prodotto della sapienza metafisica, che è diventata la coscienza contemporanea della scienza, porta la contraddizione metafisica alle conclusioni della sua contraddizione interna: le conclusioni sono che la felicità prodotta dalla tecnologia e primariamente dalla tecnica è fondata su di un base ipotetica deduttiva e dunque affatto sicura. Adesso Bing confonde questo assunto teorico e lo traduce erroneamente nella conclusione che la tecnica non è in grado di risolvere i problemi dell’umanità. Al contrario invece, afferma Emanuele Severino, dalla tecnologia (meglio dire tecnica) i problemi umani sono risolti alla massima potenza, ma risolvere i problemi non è la verità dell’essere ma della negazione autonegantesi della sua verità. Dunque concluderei cosi, che questa alienazione produca periodi di benessere e anche duraturi all’uomo, non è negato dalla filosofia severiniana, ma dalla interna contraddizione della tecnica stessa, che va sottolineato, provvisoriamente li produce, eccome.
Buonasera, dici che l’articolo di Caiano ha mal consigliato Bing? Ma con ciò intendi che l’intelligenza artificiale di Bing ha selezionato questo articolo come fonte per rispondere alle tue domande sulla questione della tecnica nel pensiero di Emanuele Severino?
Grazie
Manciox, la cosa bella è che in quest’articolo non ho mai parlato del tramonto dell’Occidente… haha.
Tra l’altro, l’articolo sull’interpretazione severiniana di Eschilo e Leopardi quando uscirà?
Gentilissimo,
grazie per la segnalazione! La cosa interessante è che, in questo articolo, non affronto la questione del tramonto della civiltà della tecnica. Non mi ricordavo che cosa avessi effettivamente scritto qui (si tratta di un riassunto della mia tesi triennale), ma ho ricontrollato e riletto e mi “fermo” alla pax technica.
Probabilmente ho scritto qualcosa riguardo al tramonto dell’Occidente in un altro articolo, riguardante la lettura severiniana di Eschilo e Leopardi, che però non è ancora uscito (è ancora allo stato di “bozza”).
Non saprei da dove Bing abbia attinto per trarre quelle conclusioni… io sono perfettamente d’accordo con Lei, ma non saprei che cosa potrei fare! Non ho scritto quello che Bing riporta… né gli ho dato la possibilità di fraintendermi.
Quindi non saprei proprio che dirLe…
Ad ogni modo, grazie ancora per la Sua segnalazione. Un caro saluto.
PC
Ciao Caianus, è uscito poco fa ahahah
Ho provato a chiedere a bing, questo il risultato:
“parlami della questione della tecnica in severino”
“La questione della tecnica ricopre un ruolo fondamentale all’interno del pensiero di Emanuele Severino. Secondo il pensatore bresciano, la tecnica è un prodotto dell’Occidente, che si basa sulla negazione dell’essere e sulla creazione di qualcosa dal nulla. Questa negazione è alla base della storia dell’Occidente e ha portato all’avvento della tecnica. La tecnica è vista da Severino come una minaccia per l’umanità, in quanto distrugge la natura e la cultura. Inoltre, la tecnica è vista come un’ideologia che viene utilizzata per giustificare l’uso della forza e della violenza. Secondo Severino, la tecnica deve essere corretta attraverso l’etica e la filosofia, in modo da evitare che diventi una minaccia per l’umanità. Spero che queste informazioni ti siano state utili! 123
Altre informazioni:
1. arenaphilosophika.it
2. raicultura.it
3. raicultura.it
4. raicultura.it”
Da metà in poi è completamente sbagliato! Ma non ho scritto nulla di simile… dubito fortemente che si sia ispirato al mio articolo. No?