LA STORIA CONCETTUALE DELLA FILOSOFIA POLITICA. Il divorzio di Atene dalle democrazie contemporanee

“La storia insegna”. Questa la convinzione e una la domanda: in che termini la si deve interpretare per non ridurne il significato a un semplice accostamento di fenomeni passati al presente? A questo proposito ci viene in soccorso la storia concettuale, con il suo tentativo di riportare contenuto alla forma in uno scontro frontale con la storia delle idee.
Ma cos’ è, concretamente, l’approccio concettuale? L’idea fondamentale è quella di rivalutare il concetto che si nasconde dietro le parole (in questo caso, quelle della politica), talvolta nate, talvolta “cresciute” in contesti lontani dai periodi storici cui vengono attribuite. Grande nemico della Begriffsgeshichte è l’universalizzazione – indistinta estensione all’intera storia del genere umano – di temi eterni che sarebbero solo successivamente da declinarsi secondo un determinato momento storico. Fondamentale in questo senso è per Duso (Treviso, 1942) il concetto di Potere, al centro di una fitta rete di termini ed espressioni (libertà, popolo, politica, governo…), che, proprio per il legame intrinseco del Potere con la scienza politica moderna, necessariamente non possono applicarsi al pensiero antico. O, per lo meno, non nel modo in cui le intendiamo noi. Elemento ineluttabile per gli antichi è la concezione dell’uomo come zōon politikon: è facile comprendere come la politica riguardi la natura stessa dell’umano e per questo risulti strettamente congiunta all’etica, con i suoi problemi del bene vivere e, quindi, del ben governare: quantomai lontana da un’idea – fondante – di soggezione del governato nei confronti del governante.
E ancora, data la fondazione naturale della politica, in essa come nella natura vige per gli antichi un ordine universale, esterno, misurabile, per cui chi vota si fa espressione di una volontà oggettiva diametralmente opposta alla volontà soggettiva del voto delle democrazie contemporanee, in cui l’ordine è non già costituito, ma da costituire. Proprio a questo scopo, d’altronde, i cittadini si sottomettono al dominio di un sovrano. Dal potere come incarnazione della volontà politica nel sovrano, al potere interamente nelle mani del popolo: ecco il fulcro delle teorie del giusnaturalismo moderno, che, a partire da Hobbes, riconoscono nell’individualità del soggetto la materia dello stato. Con questo autore avviene una svolta epocale nella concettualità e nel modo di intendere le strutture politiche che, fino al primo Seicento, avevano continuato a muoversi entro l’orizzonte aristotelico. Considerato per antonomasia l’antitesi di Rousseau, folle sostenitore di un assolutismo tutt’altro che moderato, Hobbes si rivela non solo padre di una logica tutta nuova, ma pure della medesima logica entro cui i suoi più famosi critici, Rousseau compreso, formuleranno le loro tesi di stampo squisitamente democratico. Ebbene sì: se per noi la sua follia consiste nella ideazione di una (apparente) totale eteronomia, per i suoi contemporanei questa consisteva anche nel suo invito ai sovrani a fondare il loro potere nell’autorizzazione dei cittadini, cosa che ai nostri occhi sembra più che scontata.
Così, in un colpo solo, la storia concettuale pone all’origine delle nostre strutture democratiche uno dei principali teorici dell’assolutismo e fa cadere il mito di Althusius, filosofo e giurista spesso considerato l’ideatore della sovranità popolare. Riconoscere ad Althusius questo merito risulta incorretto se si tiene in considerazione la sua appartenenza, forse non così evidente, alla logica precedente, quella antica: basti pensare al rapporto che subordina a un corpo di magistrati – rappresentanti ciascuno una porzione del regno – il re, chiamato appunto sommo magistrato. Il cosiddetto popolo sovrano si scopre essere quindi l’organo di rappresentanza identitaria di una realtà frammentata tipicamente medievale, che diventa propriamente sovrano assumendosi il compito di interpretare e difendere dal re quell’ordine oggettivo di cui sopra, da individuarsi, a cavallo tra Cinque e Seicento, non solo nelle leggi naturali, ma anche in quelle divine. Insomma, per attutirne la caduta potremmo concludere semplicemente che il problema di questo autore sia di non avere riconosciuto nel popolo una molteplicità di individui liberi e uguali – tralasciando così il fatto che il contratto (suo vero merito, insieme al federalismo) non abbia qui funzione costitutiva del potere ma attributiva; che il corpo di rappresentanza, una volta istituito il sommo magistrato, per poter svolgere il proprio ruolo di giudice, debba permanere come soggetto politico[1]; che il re non incarni la volontà di nessuno e proprio per questo debba stipulare il contratto con il popolo, come per promettergli un’obbedienza altrimenti non garantita.
Hobbes in quest’ottica si rivela geniale: in un mondo dominato da due grandi correnti di opinione – assolutisti da un lato e monarcomachi dall’altro – egli decide di discostarsi da entrambe e fornire delle nuove basi al pensiero politico, non più dipendenti dagli esempi virtuosi del passato, ma fondate nella scienza, nel metodo geometrico. A partire da uno stato di natura che già sancisce l’uguaglianza degli individui, la socialità naturale dell’uomo (comunque presente in questo autore)[2] non basta a generare l’ordine politico, anzi, dato il pari diritto di ogni uomo a ogni cosa, essa genera una lotta costante che culmina nella legge del più forte. E nel caratteristico sospetto dell’individuo hobbesiano verso i suoi simili, sicuramente la stabilità della pace non può essere garantita da una promessa di autolimitazione: solo l’istituzione di uno stato può rendere certa la sottomissione a un principio innaturale di questo genere.
Ecco che, in una logica in cui il dominio di un uomo sull’altro si rivela irrazionale, diventa necessario un elemento che finora non lo è stato: l’autorizzazione. Termine questo che non è sinonimo di consenso ma rimanda invece alla diade autore-attore, in cui l’autore è il soggetto di un’azione o di una volontà mentre l’attore colui che la esegue o la esprime al suo posto. Il sovrano del Leviatano, dunque, non è dotato di un potere assoluto perché i cittadini ne sono privati, ma, proprio all’opposto, perché questi ne sono rappresentati – loro sono gli autori e lui l’attore. Solo qui la strada percorsa da Hobbes e Rousseau si divide: per l’uno le molteplici volontà personali degli individui, nel diventare un’unica volontà generale, non possono far altro che incarnarsi in una singola persona; per l’altro, invece, la volontà generale non può essere incarnata.
Con una varietà di sconcertanti accostamenti, in conclusione, la storia concettuale vuole fornire degli strumenti non solo di analisi cosciente degli autori del passato, ma anche di confronto delle diverse strutture logiche che da loro ereditiamo. Talvolta, infatti, accumulatesi nel tempo, queste si ritrovano ancora oggi a dialogare segretamente tra di loro.
[1] Come se i cittadini delle nostre democrazie non esaurissero la loro politicità nel voto, ma la conservassero anche a elezioni concluse. In qualità di soggetto politico, il popolo di Althusius può avvalersi della facoltà di destituire dalla carica il re, qualora si rivelasse un tiranno.
[2] Per quanto allo stato di natura l’uomo sia definito non socievole, non si può negare che tra gli individui intercorrano legami di potere: Rousseau criticherà in quest’ottica Hobbes e, nella sua riformulazione dalla stessa teoria, dividerà lo stato di natura in due momenti, uno effettivamente presociale, caratterizzato da benessere, e uno sociale che, come in Hobbes, si manifesterà in incontri-scontri tra gli uomini e sarà ritenuto il momento di corruzione del benessere originario.
Il volume cui si fa riferimento è G. Duso (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Carocci, Roma 2005.
@ILLUS. by FRANCENSTEIN, 2025