LIBERI DI NON ESSERE LIBERI: UNA RIFLESSIONE SULLA LIBERTÀ OCCIDENTALE
La libertà sta passando di moda. Non nel senso che non si tratti di un tema della massima importanza o incapace di suscitare l’interesse delle persone, ma piuttosto perché sembra ormai che non costituisca più un vero e proprio argomento di discussione teoretica. Di libertà, per quel che concerne il mondo occidentale, si parla ormai come qualcosa di fondamentalmente acquisito, come una conditio sine qua non di ogni establishment politico e sociale oggi accettabile. Non si può negare, in effetti, che il grado di libertà di cui oggi gode l’uomo medio sia nettamente superiore se rapportato a quello di epoche precedenti. Ne sono viva testimonianza le varie sfaccettature in cui questa stessa libertà si declina: di parola, di stampa, di confessione, di associazione, ecc.
Se si volesse tentare un esperimento sociale e domandare a un campione più o meno esteso di persone se si sentono libere, il risultato prevedibile sarebbe quello di sentirsi rispondere in maniera affermativa dalla maggioranza di esse. E, in fin dei conti, ognuno è interiormente convinto di essere effettivamente libero, cioè padrone della propria vita e delle proprie scelte. Questa convinzione deriva dalla consapevolezza di non essere soggetti alla coercizione esteriore di alcunché, si tratti di un singolo capo, di un partito o di una qualsiasi altra organizzazione sociale detentrice di un potere più o meno assoluto. L’uomo contemporaneo, erede dei rivolgimenti della storia moderna e delle tragiche vicissitudini del 900, ha finalmente la sensazione di essere il solo depositario del proprio destino e delle proprie decisioni in ogni ambito della sua esistenza. Questo è, in sintesi, il quadro che il senso comune sembra delineare quando si parla di libertà.
Ma il carattere della libertà così intesa assume un significato specificamente “negativo”, nel senso che si può parlare di una libertà che si configura come assenza di un’autorità esterna e coercitiva, e quindi, in definitiva, come una libertà “da”. Rispetto ai suoi antenati, insomma, l’uomo contemporaneo sembra essere molto meno sorvegliato e direzionato nella propria condotta pubblica e privata. Erich Fromm ha tracciato in maniera mirabile questa importante differenza in un suo lavoro specificamente dedicato al tema della libertà, ponendo però, nel contempo, l’accento critico su un determinante effetto collaterale insito nel processo di emancipazione umana. Così Fromm nel suo Fuga dalla libertà:
Ci sono voluti quattrocento anni per abbattere il mondo medioevale e per liberare gli individui dalle costrizioni più evidenti. Ma benché sotto molti aspetti l’individuo sia cresciuto, si sia sviluppato mentalmente ed emotivamente, e condivida le conquiste della civiltà in misura mai sognata prima, anche lo sfasamento tra la «libertà da» e la «libertà di» è aumentato. Il risultato di questa sproporzione tra la libertà “da” qualsiasi vincolo e la mancanza di possibilità di realizzazione positiva della libertà e dell’individualità ha portato, in Europa, ad una fuga allarmata dalla libertà verso nuovi vincoli o almeno verso la completa indifferenza.
Per comprendere l’analisi di Fromm, soprattutto nelle sue gravi conclusioni, è bene tenere presente quali sono i presupposti da cui egli muove i suoi passi. Il primo e più importante principio è fortemente legato all’origine della socialità umana. Fromm ammette la naturale inclinazione degli esseri umani ad associarsi tra di loro, adducendo come motivo l’insopportabile peso della solitudine che diversamente li investirebbe rendendone l’esistenza impraticabile. Questo abissale timore per la solitudine sarebbe così radicato nell’essere umano da rendere preferibile un’esistenza sotto l’altrui giogo piuttosto che un aperto confronto con la propria coscienza isolata.
Nel tratteggiare l’emergere dell’individuo nella storia, Fromm non manca di sottolineare il carattere traumatico di certe trasformazioni che porteranno al sopracitato sfasamento delle due libertà. All’uomo antico, medioevale e moderno mal si adatta la definizione di “individuo” per come la intendiamo noi oggi. Un uomo si definiva per il suo ruolo all’interno della comunità, stabilito volta per volta in base ai diversi indicatori sociali: il censo, la nascita, il mestiere, la religione. Venuti meno questi valori unificatori, nel lungo processo di individuazione che conduce fino ai giorni nostri, venne meno anche il senso di appartenenza dell’uomo ai diversi ambiti della comunità di riferimento. E questo, da un punto di vista psicologico, ebbe delle non trascurabili conseguenze sulla concezione che l’essere umano aveva avuto di sé stesso e del suo ruolo nel mondo. I legami, pur coercitivi, che gli uomini intrattenevano fra loro avevano sempre avuto, oltre alle evidenti conseguenze sul piano storico e politico-sociale, anche una vitale funzione stabilizzatrice; offrivano, cioè, un senso generale di solidità e sicurezza. Far parte di una classe sociale, di un ordine, di una fratellanza, di una chiesa, finanche essere schiavo, servitore, vassallo o proletario consentiva agli uomini di orientarsi nel mondo, di decifrare la propria esistenza attraverso il ruolo (spesso immutabile) che era loro toccato in sorte dispensandoli dal tragico faccia a faccia con la loro coscienza individuale.
Il processo di individuazione dipanatosi nel corso della storia, anche se perseguito da innumerevoli paladini della libertà e spesso salutato con entusiastico fervore, scalfì lentamente ma inesorabilmente la rassicurante nicchia degli ordini sociali, non riuscendo però a integrare la libertà così acquisita (la cosiddetta libertà “da”) con uno sviluppo autentico della personalità individuale, la quale si trovò orfana delle comode pastoie che fino a quel momento l’avevano irreggimentata e custodita. In altre parole, la consapevolezza di essere un individuo unico e assoluto (utilizzando in questa sede il termine nella sua accezione letterale di “sciolto da”), gettò l’uomo (e continua a gettarlo tutt’oggi) in un penoso stato di incertezza e ambiguità. Fromm sintetizza i connotati di questa incresciosa libertà nei seguenti termini:
Essa allora si identifica con il dubbio, con un genere di vita che manca di significato e di orientamento. Sorgono potenti tendenze a fuggire da questo tipo di libertà e a rifugiarsi nella sottomissione o in un genere di rapporto con l’uomo e con il mondo che prometta sollievo dall’incertezza, anche se priva l’individuo della sua libertà.
Il tema del peso opprimente della libertà, a onor del vero, non è appannaggio esclusivo dell’interpretazione psicologica. All’idea di fondo di Fromm può essere accostata senza troppa difficoltà quella dell’inautenticità della propria esistenza, tematica centrale della speculazione esistenzialista che trova nell’heideggeriana dimensione del “si” impersonale la sua più compiuta espressione. La filosofia di Heidegger, notoriamente anti-psicologista e nettamente avversa alle teorie freudiane, sembra infatti proporre un’analisi che, pur partendo da premesse di carattere fenomenologico, approda a conclusioni del tutto simili a quelle esibite da Fromm. Nell’un caso e nell’altro siamo di fronte a una profonda scissione tra la personalità genuina e quella artefatta (o, stando a Fromm, sottomessa), la quale non è altro che il frutto di un’adesione più o meno inconscia a nuovi modelli di dominio, questa volta non palesi esteriormente ma tacitamente accettati dalle grandi masse. Questi nuovi padroni invisibili prendono i nomi di opinione pubblica, conformismo e senso comune; e offrono un eccellente esempio della discrepanza messa in evidenza da Fromm fra libertà “da” e libertà “di”. Ogni individuo è certamente libero da costrizioni esterne nel momento in cui crede di organizzare scientemente la propria esistenza e di esprimere le proprie opinioni, ma non è forse consapevole di quanto tutto ciò sia in realtà profondamente condizionato dall’apparato tecnico e sociale di riferimento.
L’uomo può dire e fare ciò che vuole. Ma lo dirà e lo farà secondo modalità preimpostate, utilizzando i mezzi di comunicazione condivisi e adottando metodi espressivi ormai consolidati. Gli esempi tratti dalla nostra quotidianità non mancano; chi oggi vuole lanciare un messaggio sarà costretto a farlo utilizzando i nuovi canali social-mediatici, esprimendosi per mezzo di agili (ma spesso vacui) slogan e utilizzando i tools che il medium comunicativo gli mette a disposizione (o, per meglio dire, lo forza ad utilizzare): il post, il tweet, lo streaming e via dicendo. E il più delle volte tali messaggi non saranno che il frutto di un’adeguazione allo status quo vigente, anche nel caso che il loro propugnatore sia convinto del contrario; è infatti questo a determinare il successo (oggi sancito dal numero di likes) dei messaggi in questione. Fromm non visse abbastanza per assistere di persona a questo ipertrofico sviluppo della spersonalizzazione di massa, ma non mancò, a suo tempo, di additarne con acutezza i prodromi:
Dimentichiamo che, quantunque la libertà di parola costituisca un’importante vittoria nella battaglia contro le vecchie costrizioni, l’uomo moderno si trova in una situazione in cui gran parte di ciò che «egli» pensa e dice consiste in cose che tutti gli altri pensano e dicono; e che egli non ha acquistato la capacità di pensare originalmente – e cioè con la propria testa – la quale sola dà significato alla sua pretesa che nessuno debba interferire nell’espressione dei suoi pensieri.
Ma accanto alle origini psicologiche ed esistenziali della rinuncia dell’individuo alla propria autentica personalità non manca un fattore altrettanto preponderante di natura politica ed economica. Fromm, che non disgiunge mai la componente psicologica individuale da quella sociale, le assegna un ruolo non trascurabile proponendone al contempo una critica di spiccata impostazione marxista:
L’uomo non vende soltanto merci, vende anche se stesso e si sente una merce. Il manovale vende la sua energia fisica; il commerciante, il medico, l’impiegato, vendono la loro «personalità». Debbono avere «personalità» se vogliono vendere i loro prodotti o servizi. Questa personalità deve essere simpatica, ma oltre a questo il suo possessore deve rispondere ad alcuni altri requisiti: deve avere energia, iniziativa, deve aver questo, quello o quell’altro ancora, secondo ciò che richiede il suo posto. Come per qualsiasi altra merce, è il mercato che determina il valore di queste qualità umane; anzi, la loro stessa esistenza.
Questa diagnosi risulta, se possibile, più attuale oggi di quando venne inizialmente formulata. Sono soprattutto i giovani odierni a ritrovarsi perfettamente intercalati in questo modello, poiché sono loro gli ultimi ingranaggi della macchina produttiva che fa capo al nuovo padrone supremo delle umane sorti: il mercato. Esso è il miglior rappresentante delle nuove istituzioni padronali non esteriori: non si vede, non è un’autorità all’apparenza coercitiva (si parla, infatti, di libero mercato), non ha una vera e propria sede e nonostante tutto orienta l’esistenza di miliardi di persone. Dal momento in cui nasciamo siamo inglobati all’interno dei suoi meccanismi, al punto che le scelte della nostra vita sono tutte volte all’acquisizione di competenze, di abilità, di skills che siano in grado di fornirci l’abilitazione a un determinato mestiere. Tale mestiere, ça va sans dire, sarà a sua volta determinato dai bisogni effettivi del mercato. Ad ogni individuo, fin dalla più tenera età, verrà perciò presentato un ventaglio di possibilità che, per quanto ampio, non sarà mai in grado di fare le veci di un’autentica libertà “di” scelta. Inutile dire che, al giorno d’oggi, la scelta di fare l’ingegnere sarà decisamente più caldeggiata, ritenuta più sensata e più socialmente lodata rispetto a quella di fare l’insegnante, il musicista o il poeta. Il mercato parla chiaro.
La nostra è dunque l’epoca in assoluto più libera “da”, ma al prezzo non indifferente di una congenita regressione psicologica, esistenziale ed economica della nostra libertà “di”.
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