NON SI DEVE ATTENDERE GODOT

L’uomo che va a teatro desidera dare un senso alla sua esistenza attraverso lo spettacolo, riempirsi di una nuova sostanza che lo soddisfi ancora di più, che gli donerebbe un maggior contegno verso gli altri, gli conferirebbe un più largo giro di conversazione o un migliore posto nella società mondana. Ma attraverso le sue visite al museo e l’acquisto di pièces teatrali l’uomo ricerca anche un senso alla sua esistenza che sembra impossibile da trovare, dopo tutto. Il senso! Di grazia, il senso! Trovare il senso per mezzo della rappresentazione teatrale!
La sua vita quotidiana, monotona e moderna, pura vanità, non gli permette di passare dall’essere all’esistenza, dall’incompletezza alla completezza dell’anima. Il teatro potrebbe offrirgli un obiettivo – dice a se stesso -, mostrargli un cammino di vita già segnato che lo soddisfarrebbe per sempre. Forse, nell’identificarsi con i personaggi, l’uomo si sentirà alla fine felice perché avrà trovato un fine alla sua esistenza; nutre la speranza, mentre acquista il biglietto, di ripartire carico di uno scopo esistenziale. L’uomo si risolve allora di prendere un posto a teatro. Gli hanno parlato sovente di Samuel Beckett; da parte sua, non ne sa niente. «Beckett», però, suona bene; è elegante e enigmatico. Si potrebbe dire un nome degno di un profeta! Beckett deve sicuramente averla, lui almeno, la risposta al senso della nostra venuta sulla tessa. Il posto è preso. Si alzi il sipario!
L’uomo si aspetta delle scenografie lussuose e dei personaggi magniloquenti. Niente di tutto ciò. Vede Vladimiro e Estragone. Due esseri banali, ma di un banale triste che, a ben guardare, dona loro un’aria ridicola. Questi due personaggi e questa scenografia sembrano troppo comuni, poco degni di una rappresentazione teatrale come la intende tradizionalmente. Vladimiro e Estragone sono uomini comuni, nei quali lo spettatore può identificarsi, ma che ciò non ostante non lo elevano a un rango superiore, a una realtà differente dal suo peso quotidiano. I due soggetti si esprimono senza enfasi in un mondo privo di brillantezza.
Senza saperlo, lo spettatore vedrà la sua vita passare, in questo teatro dell’assurdo, e meglio la coglie, nella sua dimensione più autentica. In poco più di un’ora, con lentezza e senza elucubrazioni, sperimenterà il suo non-senso esistenziale, vi si immergerà pienamente nel suo aspetto abissale, quello che rigetta continuamente. Attenderà Godot con i personaggi del teatro di Beckett; si renderà contro che ha atteso Godot per tutta la sua vita e che non ne ha abbastanza. Attenderà un colpo di scena, un po’ d’azione, esattamente come voi attendete la fine di questo articolo. Aspetterà. Attendere ancora e ancora Godot. Attendere il climax, il senso dell’esistenza, percepire la sagoma di Godot che nessuno, in fondo, conosce veramente. Non troverà nulla di tutto ciò; il suo sforzo sarà di primo acchito vano e di questo piangerà come un bambino. Non vi troverà altro che del non-senso, non comprenderà altro che conversazioni automatiche e assurde che non hanno né finalità né bellezza. Lo spettatore uscirà tramortito dall’assurdità dell’esistenza, privato della sua arma principale: la speranza di una missione umana ben precisa fin dalla nascita. Queste batture vanno ad affollarsi nel suo spirito, come dei folli pugnali che decidessero di trafiggerlo per sempre, come un abbandono di ogni capacità percettiva:
ESTRAGONE: Che cosa si fa ora?
VLADIMIRO: Non lo so.
ESTRAGONE: Allora andiamocene.
VLADIMIRO: Non si può.
ESTRAGONE: Perché?
VLADIMIRO: Aspettiamo Godot.
Ma l’uomo non dovrebbe uscire da questo teatro disperato per l’assurdità che temeva così fortemente e che ha appena visto confermata dalla rappresentazione teatrale. Non dovrebbe avere fretta di uscire dalla sala, di fuggire lontano dal non-senso. È suo dovere provare e sperimentare pienamente questo non-senso, di vedervi la fotografia della sua propria vita di uomo ordinario, sottomesso alle medesime regole che i personaggi del teatro di Beckett. Detto altrimenti, l’uomo deve vedere in questa presa di coscienza, astrattamente infelice e sfortunata, di una esistenza assurda a vana a un tempo, una possibilità di ricreare da sé il senso che smaniava gli venisse offerto. L’essere umano ha per dovere di non doversi lasciar manovrare come una marionetta dagli altri, dai predicatori del senso. Il senso dell’esistenza è da reinventare individualmente e in autonomia.
Così, la vita è essa stessa vana perché priva di senso: Godot non arriverà. L’uomo allora ha due possibilità. Può prendere la decisione di contemplare la sua attesa come contempla i commedianti immobili nell’attesa di Godot; ma ha ugualmente la possibilità di sopravanzare la passività che sembra in un primo momento caratterizzarlo, con lo scopo di divenire pienamente attivo nella sua ricerca del senso. È il solo a poter dare un senso parziale alla sua vita nel non-senso globale del mondo. Ha l’obbligo, in quanto essere esistente, di definire la finalità della sua propria esistenza, che non sarà simile a quella del suo vicino. La sua vita è da reinventare, in un processo solitario, al fine di passare dall’essere all’esistente. In effetti, l’uomo racchiude in sé due tendenze che lo rendono allo stesso tempo potenzialmente forte e potenzialmente debole: può decidere sia, tramite un esercizio lasco della sua volontà, di rimanere in una esistenza triste rinunciando così alla vita, perché il senso parziale che potrà così donarle non è immediatamente intelligibile, oppure ha la capacità e la legittimità di salvarsi grazie ad un esercizio attivo di creazione che sarà opportuno riattivare costantemente per non soccombere all’angoscia esistenziale. Gli altri, il mondo esterno, non possono offrirgli delle risposte adeguate sulla possibilità di una «briciola» di felicità: l’essere umano deve porsi come il grande creatore del senso parziale della sue esistenza, immerso nel niente del mondo. Può così sia vivere pienamente, sia morire di disperazione: questa alternativa dipende dalla sua volontà o meno d’esistere e di divenire migliore.
Prima che cali il sipario, Vladimiro rivolge a Estragone un’ultima domanda che, come lo sottolinea la didascalia, si dimostra tragicamente inutile, perché non sembrano avere la volontà di vivere nel mondo e contemplano solamente la loro inazione reciproca:
VLADIMIRO: Allora, andiamo?
ESTRAGONE: Andiamo.
Non si muovono.
Vladimiro, Estragone e lo spettattore hanno come dovere ultimo quello di modificare questa fine, in questa maniera:
VLADIMIRO: Allora, andiamo?
ESTRAGONE: Andiamo. Dal momento che non viene, noi andremo a trovarci un altro Godot.
Si misero a correre per andargli incontro.
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@ILLUS. by WANDO, 2022