IL SENSO INFINITO IN BORGES: TRA PIERRE MENARD E LA BIBLIOTECA DI BABELE
L’articolo è stato scritto insieme a Martina Giribaldi
È estremamente difficile avvicinarsi a Borges con le “lenti” razionalizzanti e limitanti della filosofia. Questo non perché Borges non sia anche un filosofo, un eccelso filosofo, ma perché il suo intento – forse – consiste nel mettere in risalto le criticità del rigoroso pensiero filosofico. Leggendo Borges, si ha l’impressione di cogliere della purissima filosofia, ma poi ci si sente smarriti, non si riesce a trovare un senso univoco, un percorso dimostrativo, delle argomentazioni: la filosofia di Borges è la non-linearità. Forse persino quest’abbozzo di definizione è un tradimento di ciò che il Borges filosofo è in realtà.
Anche chi scrive si è scontrato e si scontra con la difficoltà di cui sopra. Ciò che tuttavia si cercherà di fare di seguito è indagare due delle Finzioni di Borges, Pierre Menard, autore del Don Chisciotte e La biblioteca di Babele, avendo come criterio di ricerca la tematica del senso, del significato, della semantica, in relazione all’infinito: in due parole, il senso infinito. Di certo, pare opportuno abbandonare ogni pretesa di rinvenire dimostrazioni, argomenti o linee di pensiero nel testo borgesiano. Si lascerà parlare il testo, ci si lascerà trasportare da questo.

In Pierre Menard, autore del Don Chisciotte, il “protagonista” è proprio l’autore francese che dà il titolo alla narrazione. Menard è autore di una “obra visible”, l’opera visibile, ovverosia una serie di scritti di svariati generi su diversi argomenti. Ancor più importante, dice Borges, è però la “obra invisible”, l’opera invisibile, che consiste nella scrittura (badiamo bene, non ri-scrittura) di alcuni capitoli del Don Chisciotte di Cervantes. L’intento di Menard non è quello di scrivere un altro Don Chisciotte, frutto della sua personale creatività; egli non vuole nemmeno copiare meccanicamente il testo di Cervantes. Quello che Menard vuole fare è scrivere un testo che sia identico, parola per parola e riga per riga, a quello di Cervantes. Questo testo deve essere il risultato dello stesso retroterra culturale, sociale, linguistico, geografico e politico di cui Cervantes era l’espressione, questo almeno è quanto inizialmente vuol fare Menard. Studia lo spagnolo e la storia della Spagna seicentesca, cerca di astrarre se stesso dai tre secoli di storia che separano la morte di Cervantes dal 1918, anno della sua impresa letteraria.
Il risultato? Un testo “verbalmente identico” a quello di Cervantes… eppure diverso, irrimediabilmente diverso. Perché, ci si chiederà? Perché il tempo è passato, e quelle parole non vogliono dire più lo stesso. Il testo seicentesco di Cervantes, identico a quello novecentesco di Menard, è in realtà diverso perché quelle stesse parole portano con sé la storia di due epoche differenti, portano con sé l’apparizione e la scomparsa di teorie sull’universo, di visioni del mondo, di coscienze sociali e culturali che vengono evocate da chi legge. Chi legge non può astrarsi da ciò che è. Ciò che ognuno di noi è ha a che fare con l’epoca in cui veniamo all’essere, con la storia che ci ha preceduti, con la narrazione che di quella storia fa chi ci educa; il nostro atteggiamento verso il futuro è anch’esso determinato dal nostro passato e da come il nostro passato è interpretato nel nostro presente. Anche quando ci troviamo di fronte ad un’opera letteraria, quello che questa ci può dare dipende da noi. Il senso che le parole scritte hanno, dipende anche e soprattutto da noi. Per quanto cerchiamo di immedesimarci nella mente di chi le ha scritte, sappiamo che questo tentativo non può che essere vano, così come quello di Menard.
Borges scrive che il testo di Menard “è più ricco” di quello di Cervantes. Ma perché? Perché evoca più significati? Questa forse è la risposta filosofica standard che potremmo dare dinanzi alla questione postaci da Borges. Ma siamo davvero sicuri che le cose stiano così? Se le cose stessero così, dovremmo dire che il testo di Menard è più ricco di quello di Cervantes perché, oltre ai significati che l’opera evocava nel Seicento, ne evoca di nuovi. Ma siamo davvero sicuri che la ricchezza di un’opera si determini in base alla quantità di senso che questa produce in chi legge? Noi, nel 2022, leggendo il Don Chisciotte, “produciamo” dei significati; Menard, scrivendolo e leggendolo, ne ha prodotti altri (diversi dai nostri); i contemporanei di Cervantes vi hanno visto qualcosa di ancor più diverso. Ognuno di noi, leggendo, capisce qualcosa di differente. È impossibile quantificare, è impossibile determinare il valore della nostra lettura, della nostra poiesi semantica. Il testo di Menard è forse più ricco di quello di Cervantes, o forse il testo di Cervantes è tanto ricco quanto quello di Menard, o forse quello di Menard è più ricco di quello di Cervantes perché ci fa capire il valore della parola scritta, generatrice di infiniti significati a seconda delle epoche e dei lettori che la incontrino. La risposta non c’è.

C’è però un fatto: il valore della parola scritta, le implicazioni della sua potenzialità infinita. La biblioteca di Babele ha come tema centrale proprio questo. Immaginiamo la totalità di ciò che è stato scritto, di ciò che viene scritto ora e di ciò che sarà scritto nella vastità immensa del futuro. Immaginiamo anche ciò che non verrà mai scritto, ma che potrebbe essere scritto. Tutte le combinazioni dei “venticinque simboli ortografici”, tutte le narrazioni di tutte le storie del mondo, tutte le argomentazioni sulla natura della realtà, tutte le loro rispettive confutazioni, insieme con le confutazioni di queste ultime e i relativi corollari. La Biblioteca di Babele, immaginata da Borges, è la totalità dell’Universo (scritto). Non c’è alcuna combinazione di lettere che in quella Biblioteca non sia già stata prevista ab aeterno. Ogni combinazione di lettere può essere ripetuta un numero n di volte, il che amplia infinitamente l’orizzonte della Biblioteca. Anche un’accozzaglia di lettere, apparentemente priva di senso, è una combinazione che risiede nei libri della Biblioteca; quest’accozzaglia può essere ripetuta infinite volte. Ci sono libri che contengono una singola lettera, una sequenza, due sequenze, miliardi di pagine in cui viene ripetuta soltanto una lettera. Due libri possono essere quasi identici, tranne che per una virgola, un punto o un accento. Non esistono due libri perfettamente identici.
La Biblioteca, la cui descrizione qui proposta è soltanto un abbozzo, è infinita, questo scrive Borges. Siamo sicuri che sia così? In fondo, le lettere sono limitate, e così le loro possibili combinazioni. Certo, l’elemento della ripetibilità all’infinito spinge in là il limite delle combinazioni, ma questo c’è? Borges ci propone una risposta: “La Biblioteca è illimitata e periodica”, nel senso che le combinazioni (i libri) sono limitati, ma si ripetono infinite volte in disposizioni e ordini infinitamente diversi.
Ma mettendo in relazione la finzione di Pierre Menard e questa, non possiamo evadere la questione del senso infinito della parola scritta. La Biblioteca di Babele è la plastica rappresentazione dell’infinita fenomenologia dello scritto: ci sono infinite opere. Ma ognuna di queste “istanziazioni” dello scritto può essere letta in infiniti modi diversi, può portare un’infinità di senso e di significato, a seconda di chi la legga, dal luogo e dall’epoca in cui venga letta. Se la Biblioteca è infinita, essa tuttavia non è tutto. Al di là degli infiniti scritti, ci sono le infinite interpretazioni. Queste interpretazioni possono essere, a loro volta, scritte? Ciò che un’opera letteraria (o un’”insensata” sequenza di lettere) significa per qualcuno, può essere scritto? Se sì, a quell’interpretazione (al significato che quel qualcuno attribuisce allo scritto), potrebbe aggiungersi un illimitato numero di significati, cioè le interpretazioni che altri attribuirebbero a quanto è stato scritto. Se tutto questo può essere a sua volta scritto, allora è già incluso nella Biblioteca, che è davvero “l’Universo”, come scrive Borges all’inizio della finzione. E se invece ciò che la parola scritta significa per qualcuno fosse un contenuto impossibile da esprimere attraverso le parole? In quel caso, la totalità di ciò che è scritto non sarebbe la totalità di ciò che può essere significato. La Biblioteca infinita sarebbe solo una parte del significato che lo scritto evoca.

Non ci sono elementi cogenti per scegliere una o l’altra via: Biblioteca, parola scritta, infinito e significato sono dimensioni indecifrabili, in questi testi di Borges. Entriamo in un labirinto senza uscita. Non possiamo trovare il filo di Arianna, non possiamo perché non esiste. Non c’è argomentazione logica che possa sostenere il peso delle argomentazioni contrarie. La razionalità è solo una forestiera nella Biblioteca. Forse, quella Biblioteca e gli enigmi che da essa derivano sono come la nostra mente: indecifrabili, impossibili da spiegare in modo soddisfacente. Forse, è così che deve essere.
Insomma, al diavolo la forzata razionalità, propugnata da quella che viene definita “la vera filosofia”, la quale ci costringe a sviluppare i nostri pensieri in precisi schemi e che non ci permette di andare oltre, in un’altra direzione, una destinazione senza meta. Questa è una sensazione che disorienta e che distrugge al contempo le proprie eventuali aspettative. Tutto è fluido, tutto scorre e tutto rimane. Che strano e destabilizzante accostamento… Vivere in questo modo è come essere inghiottiti da un vortice soffocante, e insieme liberatorio, in quanto si è liberi di sperimentare e di pensare, senza seguire le orme già calpestate da altri. Significa aprire una porta sconosciuta per approdare su una terra misteriosa, quasi come entrare in una qualche forma d’esilio. Una terra, questa, che i poeti, scacciati dalla Repubblica di Platone, avrebbero amato perché lì avrebbero potuto usare con maggior libertà la loro pungente ironia contro la “vera filosofia” (o presunta tale), l’unica ad avere diritto di essere.
Si lascia ai lettori l’arduo compito di dire la loro. Il tentativo che si è cercato di portare avanti finisce qui.
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