DOSTOEVSKIJ: FENOMENOLOGIA DEL CONTRASTO
Estratto di S. Zweig, Dostoevskij, Diarkos, 2024, pp. 150-154
Quando non riusciamo a comprendere un fenomeno in Dostoevskij, dobbiamo cercare la sua necessità nel contrasto. Non dimentichiamolo: Dostoevskij è sempre un “sì” e un “no”, autodistruzione e autoesaltazione, contrasto portato agli estremi. E questa arroganza esagerata è solo la controparte di un’umiltà esagerata, la sua coscienza popolare esaltata è solo la sensazione polare del suo stravolto senso personale di nullità. Si divide, per così dire, in due metà: orgoglio e umiltà. Umilia la sua personalità: si cerchi nei venti volumi della sua opera una sola parola di vanità, orgoglio, arroganza! Si troverà solo diminuzione di sé, disgusto, accusa, umiliazione. E tutto l’orgoglio che possiede lo riversa nella razza, nell’idea del suo popolo. Distrugge tutto ciò che si applica alla sua personalità isolata, tutto ciò che si applica all’impersonale in lui, il russo, l’uomo universale, che eleva a deificazione. Da incredulo in Dio diventa un predicatore di Dio, da incredulo in se stesso diventa l’araldo della sua nazione e dell’umanità. È anche un martire nel regno degli ideali, che si colpisce sulla croce per redimere l’idea.
Questo è il suo grande segreto: diventare fecondo attraverso l’opposizione. Allungarla all’infinito, in modo che abbracci il mondo intero, e poi rivolgere la forza che scaturisce da essa verso il futuro. Gli altri poeti di solito creano il loro ideale dall’innalzamento della loro personalità, modellando se stessi, purificati, trasfigurati, migliorati, elevati, considerando l’uomo futuro come una sorta di tipo purificato di se stessi. Dostoevskij, l’uomo degli opposti, il dualista creativo, forma il suo ideale, il suo dio, attraverso l’antitesi a se stesso: degrada se stesso, il vivente, al negativo. Vuole solo essere l’argilla da cui viene tratto il nuovo stampo; la sua sinistra corrisponde a una destra nell’immagine futura, la sua profondità a un’elevazione, il suo dubbio alla fede, il suo conflitto all’unità. «Che io possa perire, se solo gli altri sono felici»: alla parola del suo starec ascrive un valore spirituale. Distrugge se stesso per risorgere nell’uomo futuro.
L’ideale di Dostoevskij è quindi essere come non è. Sentire come non sente. Pensare come non pensa. Vivere come non vive. Fino al più piccolo dettaglio, passo dopo passo, l’uomo nuovo viene contrapposto alla sua forma individuale, si forma una luce da ogni ombra del suo essere, uno splendore da ogni oscurità. Dal “no” a se stesso crea il “sì” appassionato della nuova umanità. Continua fin nella fisicità questa condanna morale senza precedenti di se stesso a favore dell’essere futuro, la distruzione dell’uomo individuale a favore dell’uomo universale.
Si prenda la sua immagine, la sua fotografia, la sua maschera mortuaria e la si metta accanto alle immagini delle persone in cui ha plasmato il suo ideale: accanto ad Alëša Karamazov, accanto allo starec Zosima, al principe Myškin, questi tre schizzi del Cristo russo, il Salvatore, che lui ha disegnato. E fino al più piccolo dettaglio, ogni linea qui è un contrasto e una contrapposizione con se stesso. Il viso di Dostoevskij è cupo, pieno di mistero e di oscurità, il volto dell’altro uomo è sereno e di pacifico candore, la voce di Dostoevskij è roca e brusca, quella dell’altro uomo è dolce e tranquilla. I suoi capelli sono aggrovigliati e scuri, gli occhi profondi e inquieti, mentre i volti di quelle persone sono luminosi e incorniciati da ciocche morbide, i loro occhi brillano senza inquietudine o paura. Dostoevskij dice espressamente di loro che guardano dritto davanti a sé e che il loro sguardo ha il dolce sorriso dei bambini. Le sue labbra sono strette dalle rapide rughe del disprezzo e della passione, non sanno ridere; Alëša e Zosima hanno il sorriso libero dell’uomo sicuro di sé che lampeggia sopra i loro denti bianchi. Passo dopo passo, egli contrappone la propria immagine in negativo alla nuova forma. Il suo volto è quello di un uomo legato, servo di tutte le passioni, appesantito dai pensieri, mentre quello degli altri esprime libertà interiore, sfrenatezza, sospensione. Lui è discordia, dualismo, loro armonia e unità. Lui è l’uomo individuo, l’imprigionato in se stesso, loro sono l’uomo universale, che trabocca in Dio da tutte le estremità del suo essere.
Questa creazione di un ideale morale dall’autodistruzione non è mai stata così perfetta in tutte le sfere dello spirituale e del morale. Dall’autocondanna, per così dire, aprendo le vene del suo essere, con il suo stesso sangue dipinge il quadro dell’uomo futuro. Era ancora il passionale, il convulso, l’uomo dalle brevi esplosioni ferine, il suo entusiasmo un getto di fiamma che si sprigiona dall’esplosione dei sensi o dei nervi; questi sono gli ardori casti, dolcemente ma costantemente in movimento. Hanno la tranquilla perseveranza che arriva più lontano dei salti selvaggi dell’estasi, hanno l’umiltà genuina che non teme il ridicolo, non sono, come lui, gli eterni umiliati e insultati, gli inibiti e i paralizzati. Possono parlare con chiunque e tutti si sentono rassicurati dalla loro presenza, non hanno l’eterna isteria della paura di offendere o di essere offesi, non si guardano intorno con aria interrogativa a ogni passo. Dio non li tormenta più, li tranquillizza. Sanno tutto, ma proprio perché sanno tutto, capiscono anche tutto, non giudicano e non condannano, non ponderano le cose, ma le credono con gratitudine. È strano: lui, l’eternamente inquieto, vede la più alta forma di vita nell’essere umano sereno e tranquillo, l’ambivalente postula l’unità come ideale ultimo, l’indignato la sottomissione. In loro, il suo tormento di Dio è diventato la brama di Dio, i suoi dubbi certezza, la sua isteria guarigione, la sua sofferenza una felicità assoluta. L’ultima e più bella cosa dell’esistenza per lui è ciò che lui stesso, il cosciente e il troppo cosciente, non ha mai conosciuto e che quindi desidera come la cosa più sublime per l’uomo: l’ingenuità, la fanciullezza del cuore, la dolcezza, la serenità evidente.
Osservate i suoi personaggi preferiti mentre camminano: un sorriso gentile è sulle loro labbra, sanno tutto eppure non hanno orgoglio, non vivono nel mistero della vita come in un burrone infuocato, ma se lo avvolgono intorno come un cielo azzurro. Hanno sconfitto i nemici primari dell’esistenza, hanno «vinto il dolore e la paura» e sono quindi diventati divini nell’infinita fratellanza delle cose. Sono redenti dal loro ego. La più grande felicità dei figli della terra è l’impersonalità… ecco come il supremo individualista trasforma la saggezza di Goethe in una nuova fede.
La storia dello spirito non conosce esempi di un’autodistruzione morale simile all’interno di un essere umano, di una creazione altrettanto fruttuosa dell’ideale dal contrasto. Martire di se stesso, Dostoevskij si è inchiodato alla croce: la sua conoscenza perché testimoni la fede, il suo corpo perché testimoni l’uomo nuovo attraverso l’arte, la sua individualità per amore dell’universalità. Vuole la propria caduta come modello, affinché possa nascere un’umanità più felice e migliore: accetta tutte le sofferenze per la felicità degli altri. E lui, che per sessant’anni si è spinto fino all’ampiezza più dolorosa della sua opposizione, fino a tutte le profondità del suo essere, per poter trovare Dio e quindi il senso della vita, getta via la conoscenza accumulata per una nuova umanità, alla quale racconta il suo segreto più profondo, l’ultima formula, la più indimenticabile: «Amare la vita più del senso della vita».
DOSTOEVSKIJ