GEORGES CANGUILHEM: UNA CONOSCENZA DA VIVERE
Estratto di Georges Canguilhem, La conoscenza della vita, edizione italiana a cura di Filippo Domenicali, Orthotes, Napoli-Salerno, 2024 (dall’introduzione al saggio Il pensiero e il vivente).
Conoscere è analizzare. Si è più propensi a dirlo che a giustificarlo, perché uno dei tratti caratteristici di ogni filosofia che si preoccupa del problema della conoscenza, è lasciare che l’attenzione verso le operazioni del conoscere comporti una distrazione nei confronti del senso del conoscere. Nel migliore dei casi, capita che si risponda al problema con l’affermazione dell’autosufficienza e della purezza del sapere. Eppure sapere per sapere non è affatto più sensato che mangiare per mangiare, uccidere per uccidere, o ridere per ridere, poiché coincide con l’ammissione che il sapere deve avere un senso, e con il rifiuto di trovargli un senso diverso da se stesso.
Se pure la conoscenza è analisi, non è un buon motivo per arrestarsi. Scomporre, ridurre, spiegare, identificare, misurare, mettere in equazione, dovrà pur essere un beneficio per l’intelligenza – poiché, evidentemente, si tratta di una perdita in termini di godimento. Non si gode delle leggi di natura, ma della natura; non dei numeri, ma delle qualità; non delle relazioni, ma degli esseri. E per dirla tutta, non si vive di solo sapere. Volgarità? Forse. Blasfemia? Ma in che cosa? Per il fatto che alcuni uomini si sono votati a vivere per il sapere bisogna credere che l’uomo non viva veramente se non nella scienza, e per la scienza?
Tra la conoscenza e la vita si ammette troppo facilmente l’esistenza di un conflitto fondamentale, e tale che la loro avversione reciproca non possa che condurre alla distruzione della vita attraverso la conoscenza, o al dileggio della conoscenza da parte della vita. Allora la scelta sarebbe tra un intellettualismo cristallino, cioè trasparente e inerte, e un misticismo torbido, attivo e confusionario.
Ma il conflitto non è tra il pensiero e la vita nell’uomo, ma tra l’uomo e il mondo nella coscienza umana della vita. Il pensiero non è che lo scollamento tra l’uomo e il mondo che consente la presa di distanza, l’interrogazione, il dubbio (pensare è pesare ecc.) di fronte all’ostacolo sorto. La conoscenza consiste concretamente nella ricerca di sicurezza attraverso la riduzione di ostacoli, nella costruzione di teorie di assimilazione. Si tratta quindi un metodo generale per la risoluzione diretta o indiretta delle tensioni tra l’uomo e l’ambiente. Ma definire così la conoscenza significa trovarne il senso nel fine, che è quello di permettere all’uomo un nuovo equilibrio con il mondo, una nuova forma e una nuova organizzazione della sua vita. Non è vero che la conoscenza distrugga la vita, ma disfa l’esperienza della vita al fine di astrarne, attraverso l’analisi degli insuccessi, delle ragioni di prudenza (sapienza, scienza ecc.) e delle leggi per successi eventuali, per aiutare l’uomo a rifare quello che la vita ha fatto senza di lui, in lui o fuori di lui. Di conseguenza, dobbiamo dire che se il pensiero e la conoscenza si inscrivono, per il fatto dell’uomo, nella vita per regolarla, questa vita non può essere la forza meccanica, cieca e stupida, che ci si compiace di immaginare quando la si contrappone al pensiero. E, del resto, se è meccanica non può essere né cieca né stupida. Può essere cieco solo un essere che cerca la luce, così come può essere stupido solo un essere che pretende di significare.
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Così, attraverso la relazione tra la conoscenza e la vita umana si svela la relazione universale tra la conoscenza umana e l’organizzazione vivente. La vita è formazione di forme, la conoscenza analisi di materie informate. È normale che un’analisi non possa mai rendere conto di una formazione, e che si perda di vista l’originalità delle forme quando le si considerano come dei risultati di cui si cercano di determinare le componenti. Le forme viventi, essendo delle totalità, il cui senso risiede nella loro tendenza a realizzarsi in quanto tali nel corso di un confronto con l’ambiente, possono essere colte solo in una visione, mai in una divisione. Perché dividere significa al limite, e secondo l’etimologia, fare il vuoto, e una forma, essendo un tutto, non potrebbe essere svuotata di nulla.
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Quanto a noi, pensiamo che un razionalismo ragionevole debba saper riconoscere i propri limiti e integrare le sue condizioni di esercizio. L’intelligenza può applicarsi alla vita solo riconoscendo l’originalità della vita. Il pensiero del vivente deve mantenere, del vivente, l’idea del vivente: «Dal nostro punto di vista (dice Goldstein) non importa quanto [il biologo] impieghi il metodo analitico per ottenere una concreta conoscenza, ovvero una reale penetrazione nelle profondità della natura, è evidente che prevarrà sempre in lui l’attitudine a partire da ciò che è “immediatamente dato”».[1] Immaginiamo che per fare della matematica ci basterebbe essere degli angeli; ma per fare della biologia, anche con l’aiuto dell’intelligenza, a volte abbiamo bisogno di sentirci bestie.
[1] Goldstein, La structure de l’organisme, cit. p. 427 [trad. it. cit., 396-397, modificata).
@ILLUS. by GABRIELE DEMARCHIS, 2024
LA CONOSCENZA DELLA VITA