LA DURATA DI BERGSON, O DELLA VARIAZIONE COMUNE ALL’UNIVERSO E ALLA COSCIENZA
La durata è il concetto della filosofia bergsoniana. Nessuno ne dubita. Nemmeno Bergson, il quale, in una lettera al filosofo danese Harold Höffding del 14 marzo 1915, spiega che “ogni sintesi delle sue idee le deformerebbe nel loro insieme, esponendole a una serie di obiezioni, se non si prende subito, e si torna di continuo”, a quello che è il “centro della sua dottrina”: la durata. “Essa è il punto da cui sono partito – scrive – e a cui ho costantemente fatto ritorno”[1].
La durata è l’unico punto che Bergson ha visto, l’unica cosa che Bergson ha detto e, tuttavia, le notizie circa la genesi di questa idea non sono molte. Sollecitato in proposito dal filosofo e amico William James, Bergson ne associa l’intuizione al cambiamento che si produsse nel suo modo di pensare durante il biennio 1881-1883, una volta uscito dall’École Normale. In quel periodo – rivela a James – “ero imbevuto di teorie meccaniche a cui ero stato presto condotto dalla lettura degli scritti di Herbert Spencer, il filosofo al quale aderivo allora pressoché senza riserve. La mia intenzione fu di consacrarmi alla filosofia delle scienze esaminando alcune delle nozioni scientifiche fondamentali”[2].
L’evoluzionismo spenceriano è stato il primo approdo del pensiero del giovane Bergson perché, come confessa lui stesso nell’introduzione a La pensée et le mouvant, “faceva eccezione alla generale mancanza di precisione delle varie teorie filosofiche (…), mirava a prendere l’impronta delle cose, modellarsi sul dettaglio dei fatti (…) e a seguire il reale nella sua mobilità, nel suo progresso, nella sua maturazione interiore”[3]. Pur nel debito contratto verso la cultura positivista del suo tempo, Bergson vi aderì come al progetto di una fisica – simile a quella aristotelica con cui, di lì a poco, si confronterà – capace di fare del mutamento l’istanza positiva del mondo vivente e del fattore evolutivo il suo principio basilare.[4]
Bergson, però, si accorse quasi subito della debolezza del sistema di Spencer e decise di analizzare quei capitoli dei First principles in cui è questione delle “idee ultime della scienza meccanica”[5]: voleva fissare l’edificio evolutivo che tanto lo ammaliava su basi scientifico-matematiche più solide, meno vaghe e generali, restituendogli una fondazione adeguata. Solo che nel corso di questa disamina s’imbatté negli argomenti di Zenone contro il movimento e questi gli mostrarono che la fragilità del pensiero di Spencer dipendeva dal fatto che il tempo assunto dalla scienza meccanica poggiava sua una relazione tra movimento e spazio percorso analoga a quella presupposta dagli argomenti dell’eleatico contro la realtà del moto. Da qui a concludere che anche la nuova scienza evolutiva negava il cambiamento, il divenire e la processualità temporale il passo era breve e Bergson lo compì molto presto.
Il tempo matematico non è il tempo reale perché non dura, non fa nulla. In quanto indice di una relazione tra movimento e tragitto, esso esprime la simultaneità tra eventi omogenei dislocandoli in un luogo immobile ed eterno – la relazione – in cui il fluire che, per Bergson, è l’autentico dato immediato della coscienza, non trova posto. I termini che, nella scienza, designano il tempo sono improntati al linguaggio dello spazio ed è la pretesa di far coincidere la durata, che è il moto reale, con una linea, il suo simulacro, la causa dei sofismi d’Elea. Per combatterli, Bergson approfondì la sua indagine sulla realtà del tempo e del movimento confrontandosi con la riflessione aristotelica sul luogo nella dissertazione complementare latina che accompagna il Saggio sui dati immediati della coscienza: Quid Aristoteles de loco senserit.
La nozione di luogo messa a punto in Fisica IV è il risultato di un corpo a corpo con la negazione eleatica del movimento che Aristotele conduce a partire dall’evidenza irrecusabile della sua realtà. Bergson se ne occupa perché la fisica aristotelica gli sembra la fisica dinamica che sta cercando. Eppure, appena s’avvede che il topos dello Stagirita esibisce la stessa natura aporetica dello spazio zenoniano, si trovò a sospettare non solo della scienza meccanica ma della metafisica intera. Questa, del resto, nacque quando
Zenone fece presenti le contraddizioni inerenti al movimento e al mutamento, così come se li rappresenta la nostra intelligenza. Il principale sforzo dei filosofi antichi e moderni fu dedicato a superarle (…). È così che la metafisica fu condotta a cercare la realtà delle cose al di sopra del tempo, al di là di ciò che si muove e muta, al di fuori, di conseguenza, di ciò che i nostri sensi e la nostra coscienza percepiscono. Da allora, essa si predisponeva ad essere un’organizzazione più o meno artificiale di concetti, una costruzione ipotetica. Pretendeva di oltrepassare l’esperienza ma non faceva, in realtà, che sostituire all’esperienza mutevole e piena, suscettibile di approfondimento crescente, gravida di possibili rivelazioni, un estratto invariabile, disseccato, vuoto; un sistema di idee generali astratte, tratte da questa stessa esperienza o, piuttosto, dai suoi strati più superficiali. Altrettanto varrebbe dissertare sull’involucro da cui si libererà la farfalla e pretendere che la farfalla, volante, mutevole, vivente, trovi la sua ragion d’essere e il suo compimento nell’immutabilità dell’’involucro. Distacchiamo invece l’involucro. Risvegliamo la crisalide. Restituiamo al movimento la sua mobilità, al cambiamento la sua fluidità, al tempo la sua durata (corsivi nostri, N. d. C.)[6].
Ecco il programma di Bergson: restituire al mondo la sua qualità più appariscente: la durata. Ogni cosa dura, si muove, ma la durata non somiglia al modo con cui il linguaggio, e quel particolare linguaggio che è la matematica, la rappresenta. La durata è creazione continua, scaturigine ininterrotta di novità, mentre il linguaggio è vivisezione dell’incessante fluire. La nostra intelligenza, e la scienza che ne deriva, lo immobilizza per meglio ricombinare i pezzi in cui, in virtù di quello che Bergson chiama “meccanismo cinematografico del pensiero”, ne smembra col suo solo sguardo l’intreccio cangiante. Ma Bergson, ricorda Lévinas, “ha attaccato per primo il tempo della scienza davanti al quale gli altri filosofi si inchinavano”[7].
Al tic-tac universale dell’orologio cartesiano e alla veggenza del demone laplaciano Bergson ha osato opporre il luccichio delle qualità psichiche nel cui gioco onirico e visionario si risolve la durata concreta. Eppure, diversamente da quanto si è a lungo sostenuto, questa non è incompatibile col suo contrario – lo spazio – e ciò che ne deriva – numeri e grandezze. Di recente, alle ipotesi della durata-indicibile (Gilbert Maire), della durata-inesplicabile (Vladmir Jankélévitch) e della durata-estensibile (Gilles Deleuze) è stata aggiunta quella, di importanza capitale, della durata-numero (Elie During, Hisashi Fujita, David Lapoujade, Sébastien Miravete): un numero qualitativo più che quantitativo, numerante più che numerato.
L’importanza dell’ipotesi secondo cui la durata è un numero in senso aritmetico e non matematico è capitale perché solo se il tempo reale contiene, in sé, i germi della sua contraffazione e nel moto è racchiuso il principio della quiete, i “due sensi”[8] della metafisica bergsoniana non si trasformano nei corni di un pericoloso dualismo. Bergson, infatti, non rimprovera Zenone, Aristotele, la psicofisica, l’associazionismo che questa sottende e la scienza in generale, di aver ridotto la durata a un numero ma di aver “mal numerato”[9], ossia di aver scelto liberamente le unità di misura (Zenone) o di averle sbagliate (psicofisica, associazionismo, scienza). Riconoscerlo permette di far luce su come Bergson è arrivato alla durata.
Intento a riprendere da capo l’intera questione del tempo e del mutamento, Bergson ha inventato il suo problema ricorrendo a un esperimento mentale più che non sentendo che la nostra esperienza cosciente dura mentre esponeva ai suoi studenti i paradossi di Zenone. Formularlo gli permise di risolvere la questione ereditata da Charles Renouvier, il primo ad aver chiamato ‘durata’ il tempo che non si misura: è possibile numerare il tempo reale senza spazializzarlo e annullarlo? La versione dell’esperimento che dà il Saggio è questa: “Supponiamo per un istante che un genio maligno più potente di quello di Cartesio ordini a tutti i movimenti dell’universo di andare due volte più veloci”[10]. Invece, ne Le Pensée et le mouvant, dopo aver ricordato che la misura matematica del tempo è un conteggio di simultaneità, Bergson argomenta, che:
Affermare che un avvenimento si produrrà al termine di un tempo t, significa semplicemente che, fino a quel punto, si conterà un determinato numero t di simultaneità di un certo genere. Tra queste potrà accadere qualsiasi cosa: il tempo potrebbe accelerarsi enormemente e anche infinitamente, ma nulla cambierebbe per il matematico, per il fisico, per l’astronomo. La differenza sarebbe tuttavia profonda per ciò che riguarda la coscienza (…); la fatica di attendere non avrebbe lo stesso significato dall’oggi al domani, da un’ora alla seguente (corsivi nostri, N. d. C.)[11].
Un’accelerazione universale del tempo che coinvolgesse tutti gli enti, compresi gli apparecchi, non sarebbe né rilevata né rilevabile da questi. Prima e dopo l’accelerazione, i fisici continuerebbero a fare le stesse osservazioni registrando le stesse corrispondenze tra il momentum di un processo e l’indicazione sull’orologio che dovrebbe misurarne la durata. Ma la corrispondenza annulla la durata. Annunciare che un fenomeno si produrrà dopo un tempo t significa dire che ‘da qui ad allora’ la coscienza noterà un numero t di simultaneità di un certo genere. Ma già nel Saggio, prima di introdurre il suo esperimento, Bergson aveva avvertito il lettore che l’espressione ‘da qui ad allora’ non rimanda ad alcun reale intervallo.
La misura scientifica elude l’intervallo perché ne trattiene solo le estremità: “gli arresti virtuali del tempo”[12]. E proprio l’irrilevanza, per la scienza, dell’intervallo è provata dal fatto che “se tutti i movimenti dell’universo si producessero due o tre volte più velocemente, non dovremmo modificare né le nostre formule né i numeri che vi introduciamo”[13]. L’accelerazione dei movimenti del cosmo dovrebbe reclamare una nuova trascrizione di questi movimenti ma le equazioni della fisica, al pari del luogo immobile entro cui passano i corpi viventi aristotelici, restano inalterati perché in esse “il simbolo t non designa una durata ma un rapporto tra due durate, un certo numero di unità di tempo”[14] che si conserva al mutare degli intervalli.
Gli apparecchi, come le formule, sono costruiti sull’“imperdonabile inosservanza”[15] di ciò che succede nell’intervallo. Questo “esiste solo per noi e a causa della mutua compenetrazione degli stati della nostra coscienza. Al di fuori di noi non c’è che spazio e, di conseguenza, simultaneità”[16]. Solo la coscienza, quindi, ha “un’impressione indefinibile e in qualche modo qualitativa”[17] del cambiamento causato dall’accelerazione. Il genio maligno può ingannare i trascrittori quantitativi del movimento che includono l’indivisibile transitare intensivo in un contenente esteso che è principio di divisione, ma non la coscienza: la sua esistenza è scandita dal ritmo interiore del suo passare e la sua essenza è questo passare.
Il passare della coscienza è una scansione qualitativa assoluta rispetto alla quale ogni sistema artificiale è fuori luogo/tempo senza che questa scansione, diversamente da quanto affermato da François Heidsieck, l’unico ad aver commentato l’esperimento di Bergson (Henri Gouhier è l’unico ad avervi connesso la genesi della durata)[18], costituisca un sistema di riferimento privilegiato. Su quest’assolutezza, che è anche quella della relatività del moto ammessa da Cartesio e sacrificata, secondo Bergson, dalla relatività ristretta di Einstein, il genio maligno non può nulla: per la coscienza ogni variazione dell’universo è, immediatamente, una variazione della sua natura perché la variazione è la natura comune alla coscienza e all’universo.
La durata che l’astronomo, come il genio maligno, comprime a piacere per predire un’eclissi, la coscienza è obbligata a viverla e
se tra il sorgere e il tramontare fossimo durati di meno, essa ci avvertirebbe ben presto che la nostra giornata è diminuita. Certo, non ci darebbe la misura di questa diminuzione e forse neppure la percepirebbe subito come un cambiamento di quantità. Constaterebbe però, in questa o quella forma, una diminuzione dell’arricchimento quotidiano dell’essere, e che il progresso che tale essere realizza tra il sorgere e il tramontare ha subito una modificazione[19].
Tanto la sensazione di attesa evocata in apertura a Le pensée et le mouvant, quanto l’impressione confusa di un cambiamento e l’esperienza di una diminuzione, attestano che la coscienza è mutata per effetto dell’accelerazione. Certo, essa
non percepisce il tempo come somma di unità di durata; lasciata a sé stessa non ha alcun mezzo e nessuna ragione per misurare il tempo; ma per essa, un sentimento che, per esempio, durasse un numero di giorni due volte minore, non sarebbe più lo stesso sentimento; questo stato di coscienza sarebbe privato di una molteplicità di impressioni che l’hanno arricchito e ne hanno modificato la natura[20].
Il tempo vissuto della coscienza si compone di intervalli e questi sono delle unità non nulle che si interpenetrano nella loro distinzione qualitativa sommandosi senza occupare lo stesso tempo-spazio in senso matematico. L’accelerazione ne fa perdere alcune. La coscienza sente questa perdita. E poiché nelle profondità della vita psicologica il numerante e il numerato sono una sola cosa, il sentimento di una diminuzione è la diminuzione di un sentimento allo stesso modo in cui la sensazione di una crescita è la crescita di una sensazione: sia diminuzione che crescita sono eventi che comportano un cambiamento di natura della cosa che ne è interessata perché questa “non è una cosa ma un progresso”[21].
Per Bergson, quindi, la coscienza può non soltanto patire una sottrazione o un’aggiunta ed essere, così, un numero qualitativo di unità sia decrescente che crescente. Essa può essere anche sensibile a ciò che è in quanto numero qualitativo, ossia sentire se le sue unità sono più o meno numerose. Questa sensazione è la sensazione di un’intensità temporale perché che il tempo reale sia un tempo qualitativo significa che è un tempo divenuto qualità sensibile. La sua misura è l’eco che accompagna ogni calcolo: qualcosa di simile alla “rappresentazione qualitativa che un’incudine sensibile potrebbe farsi del numero crescente dei colpi di martello”[22]. Nel Saggio, Bergson azzarda che tutti i numeri di uso quotidiano hanno questo “equivalente emozionale”: la “qualità della quantità” grazie a cui, poi, ci facciamo l’idea di una quantità senza qualità”[23].
Tematizzando il carattere qualitativo anche delle differenze temporali Bergson restituisce al tempo una dimensione numerica senza dimenticare la lezione di Renouvier: non c’è misura di ciò che scorre e i cui intervalli si avvicendano senza sosta: ogni misura si compie su parti eguali, sovrapponibili e simultanee ma l’essenza della durata è trascorrere[24]. Eppure, già nel commento alla Fisica di Aristotele, aveva intuito il doppio statuto del numero riflettendo sul doppio statuto dell’intervallo. Con questo termine, spiega, possiamo intendere “ciò che riceve solo il limite” o “ciò che riceve le modalità”[25]: nel primo caso abbiamo l’involucro delle cose: le posizioni che, soltanto, permettono di distinguere gli elementi delle molteplicità omogenee o discrete; nel secondo le farfalle in volo, l’erba che cresce e le stelle cadenti. Ma solo una coscienza può ricevere il modo con cui queste, al pari di ogni organismo, evolvono, durano, facendosi loro interiore, essendogli anzi già sempre interiore e sovrapposta come un’intensità temporale lo è alle altre.
Di questo entanglement che fa dell’universo una trama di modificazioni reciproche (ricevere un modo significa modificarsi) rendendo ragione dei tanti ‘effetti farfalla’ che vi hanno luogo Materia e memoria offre l’immagine ritmica di un solo elastico variamente contratto e disteso; l’Evoluzione creatrice quella biologica di una grande catena dell’essere i cui anelli sono le diverse figure, o materie, di un unico slancio; le Due Fonti della morale e della religione, infine, l’immagine cosmica dell’unico individuo di cui tutte le società e le religioni sono avatar, numeri numerati, misure. Spetta a noi, forse, trovarne una che sveli come, se il movimento è l’assoluto, in realtà nemmeno le misure stanno ferme. Anche la matematica accelera. A meno di non credere all’eterno riposo più di coloro la cui credenza ha decostruito con così buoni argomenti Bergson avrebbe infatti dovuto riconoscere che, seppur impercettibilmente, anche agli apparecchi sentono.
[1] H. Bergson, Mélanges: l’idée de lieu chez Aristote, Durée et simultanéité, pièces diverses, correspondances et documents, a cura di A. Robinet, Puf, Paris 1972, p. 1148, trad. ns.
[2] Ivi, pp. 765-766, trad. ns.
[3] H. Bergson, Movimento retrogrado del vero, in Id. Pensiero e movimento, a cura di P. A. Rovatti, Bompiani, Milano 2000, pp. 3-4.
[4] Alle soglie del suo insegnamento liceale, prima ad Angers, poi dal 1883 a Clermont-Ferrand e infine a Parigi, Bergson preferiva gli studi di meccanica e matematica a quelli di filosofia. E ancora mentre stendeva il Saggio sui dati immediati della coscienza, amava discutere più volentieri del calcolo differenziale che della Critica della ragion pura (cfr. R.-M. Mossé-Bastide, Bergson éducateur, PuF, Paris 1955, pp. 26-27). Lo stesso dicasi per la psicologia: l’aspirante professore che, all’esame di aggregazione, attacca la psicologia dell’epoca indisponendo i suoi commissari, è lo stesso che poi, solo controvoglia, aggiungerà alla sua tesi di dottorato – il Saggio sui dati immediati – un capitolo iniziale in cui fa i conti con la psicofisica quasi come un prezzo da pagare all’accademia (lo stesso dicasi per il paragrafo delle conclusioni in cui si confronta con Kant). E quando si trovò elogiato soprattutto per la prima parte del suo lavoro si disse “furieux” con l’amico du Bos (ivi, p. 29).
[5] H. Bergson, Movimento retrogrado del vero, cit., p. 4.
[6] Ivi, p. 9.
[7]E. Lévinas, Carnets de captivité et autres inédits, in Id. Oeuvres complètes, t. 1, 1940-1945, édité par Rodolphe Calin et Catherine Chalier, Grasset-IMEC, Paris 2009, p. 218, trad. ns.
[8] F. Worms, Bergson ou les deux sens de la vie, PuF, Paris 2013.
[9] S. Miravete, Bergson structuraliste. L’aube d’une autre anthropologie structurale et cognitive, Presses du réel, Paris 2023, p. 12, trad. ns.
[10] H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Cortina, Milano 2002, p. 123.
[11] H. Bergson, Moto retrogrado del vero, cit., pp. 4-5.
[12] Ivi, p. 4.
[13] H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, cit., p. 76.
[14] Ivi, pp. 123-124.
[15] G. Fasolo, Tempo e durata. Il luogo del presente in Aristotele e Bergson, Albo Versorio, Milano 2005, p. 124.
[16] H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, cit., p. 76.
[17] Ibidem.
[18] Rispettivamente in F. Heidsieck, Henri Bergson et la notion d’espace, PuF, Paris 1961, pp. 99-107 e H. Gouhier, Bergson et le Christ des évangiles, Fayard, Paris 1961, pp. 16-17.
[19] H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, cit., p. 124, corsivi ns.
[20] Ivi, p. 125, corsivi ns.
[21] Ibidem.
[22] Ivi, p. 80.
[23] Ibidem.
[24] “Nessuna delle sue parti assiste al presentarsi dell’altra e la sovrapposizione di una parte sull’altra è impossibile, inimmaginabile, inconcepibile” (H. Bergson, Moto retrogrado del vero, cit., p. 4).
[25] H. Bergson, Mélanges, cit., p. 13, trad. ns. Nel testo, il secondo tipo di intervallo è associato alla materia, il primo al vuoto. Non possiamo però soffermarci in questa sede su cosa sia, fuori e dentro il testo aristotelico, nonché per il Bergson che lo legge e il Bergson più maturo, la materia, né su come essa riceva le modalità anziché i limiti. Come non possiamo riferire della complessità del luogo aristotelico la cui natura, in parte, sfugge al giovane dottorando.
@ILLUS. by FRANCENSTEIN, 2024