IL DIO “GIÀ”
L’azione ergetica è la trasmutazione ora energetica ora anergetica degli elementi semplici ed elementari. «…gli estremi da cui si generano e in cui si dissolvono le cose» – ἐξ ὧν καὶ εἰς ἃ ἔσχατα αἱ γενέσεις καὶ φθοραί – sono nascita e morte; da cui e verso cui: ἐξ ὧν καὶ εἰς ἃ. Gli estremi sono opposti – ἀντικείμενα –: τὰ ἔσχατα τὰ ἀντικείμενα.
L’inghippo che ha causato l’Assoluto cattolico è ben espresso in Metafisica 1018b.30 là dove Aristotele dice che «le cose che sono anteriori secondo la nozione sono diverse da quelle che sono anteriori secondo la sensazione» – ἄλλως τὰ κατὰ τὸν λόγον καὶ τὰ κατὰ τὴν αἴσθησιν –; «secondo la nozione sono anteriori gli universali, secondo le sensazioni, invece, sono anteriori i particolari» – κατὰ μὲν τὸν λόγον τὰ καθόλου πρότερα, κατὰ δὲ τὴν αἴσθησιν τὰ καθ’ ἕκαστα –. Si sta qui parlando di ciò che è anteriore per la conoscenza – τὸ τῇ γνώσει πρότερος –, e Aristotele dice che l’approccio gnoseologico «è considerato come anteriore in senso assoluto» – ἁπλῶς πρότερον –.
In questo senso, assoluto – ἁπλῶς – si è assolutizzato l’estremo della Vita, pre-scelta come principio, da che ἡ προαίρεσις ἀρχή. L’accadimento dell’esser-vivo, accadimento, peraltro, non da meno dell’esser-morto, è stato, dalla volontà di vivere dell’istinto di conservazione e sopravvivenza eletto accidente anteriore all’intero che lo include: κατὰ τὸν λόγον δὲ τὸ συμβεβηκὸς τοῦ ὅλου πρότερον – secondo la nozione l’accidente è precedente l’intero. Il vivente è anteriore all’uomo vivente «perché la nozione dell’insieme non può esistere senza la nozione delle parti» – οὐ γὰρ ἔσται ὁ λόγος ὅλος ἄνευ τοῦ μέρους – ancorché il vivente non possa esistere se non esiste qualche animale che è vivente: καίτοι οὐκ ἐνδέχεται ζωόν εἶναι μὴ ὄντος ζωοῦ τινός. Ma quale nozione della parte può escludere le due parti in essa comprese?
Ebbene, la nozione cattolica, ha potuto concepire l’esclusione della parte necrotica dall’intero processo umano comprendente nella sua nozione sia l’«esser-vivo» sia l’«esser-morto» in saeculo, id est in aetate. Siccome ciò che è tale per la conoscenza è anteriore in senso assoluto, e siccome è tale per la conoscenza ciò che è κατὰ τὸν λόγον gli umani hanno deciso di esorcizzare ciò che κατὰ τὴν αἴσθησιν è più spiacevole: la morte; e, così, hanno prescelto la vita come unica referente del λόγος che li definisce nella nozione dell’Umano (chiudendo un occhio sulla incompletezza del concetto che in questo modo ne deriva).
La Ergìa (= lo Ergon) κατὰ δύναμιν (= in potenza) è l’unica forza capace di attuarsi κατὰ ἐντελέχειαν (= in atto): la Ergìa è costantemente “all-ergìa” nel senso letterale derivato dal tedesco Allergie e composto del greco ἄλλοςe ἔργον «attività», foggiato (dal medico austriaco C. von Pirquet nel 1906) sul modello Energie «energia»; la qualità di derivare da altro – ἀλλοτριότης (-ητος, ἡ) [→ ἀλλότριος] – è il principio della differenza che l’Ergìa manifesta nel suo materializzarsi. Fondamentale e imprescindibile, a tal riguardo, il concetto di «metà» – ἥμισυς (-εια –υ) [→ ἡμι-] –: ἡ ἡμίσεια (scilicet μοῖρα) è parte del Tutto, ed è tutto quanto il “destino” dell’Intero quello di essere, umanamente, per metà vivo e per l’altra metà morto. Una metà può essere solo dopo che l’intero si sia dissolto – διαλυθέντος –, dice Aristotele, e quindi, se c’è un intero in atto, la sua metà può attuarsi solo qualora detto intero si dis-attui; viceversa, secondo la potenza, la metà è anteriore all’intero, perché quest’ultimo non è ancora in atto.
La doppia faccia (= ipocrisia) dell’Intero è interessante: per un verso, κατὰ δύναμιν esso non è ancora completamente intero; per l’altro, κατὰ ἐντελέχειαν esso è già completamente intero: se si parte dal presupposto che l’intero sia già in atto, allora la metà è effetto della sua decomposizione per decrescita; se invece si parte dal presupposto che l’intero non sia ancora in atto, allora la metà è causa della sua composizione per crescita. La prospettiva del nondum (= non ancora) è quella cinetica; la prospettiva del iam dudum (= già da tempo) è quella statica.
In Metafisica 1019a.1 si dice che «tutte quelle cose che possono esistere indipendentemente da altre» sono anteriori, «mentre queste altre non possono esistere senza di quelle»; ora, se si congettura un dudum da sempre iam si deve credere alla preesistenza di un Atto assolutamente puro per il quale non può darsi nondum: Dio. La necessità aristotelica di pensare Dio come Atto e non come potenza deriva dal fatto che Egli deve poter essere Causa prima di tutto; per dirlo in termini esperibili concretamente: solo se c’è un genitore in atto può generarsi un figlio, il quale ultimo è quindi solamente in potenza finché detto genitore non lo genera.
La mentalità ontologica disprezza l’essere-in-potenza perché, come si può vedere dall’esempio del genitore e del figlio, un essere-in-potenza non può che essere effetto di un essere-in-atto, e quindi ciò che è in potenza dipende da ciò che è in atto come un effetto dalla propria causa. L’essere-in-potenza è un essere che non (c’)è ancora: nondum ens. L’essere-in-atto è un essere che (c’)è già: iam ens. Il primato dello iam è la priorità dell’essere: lo nondum ens è sottoposto e subordinato allo iam ens. Ma, se ci si pensa in modo spassionato e oggettivo, niente impedisce che il primato e il predominio possano essere attribuiti al nondum ens: disinnescare la potenza dell’essere, vale a dire la potenza di porre in essere, è l’intento della desistenza; la potenzialità dell’essere come Ergìa ha bisogno dei genitori, per attuare il suo fine: senza genitore nessun essere può diventare in atto ciò che in potenza può diventare.
A ben vedere, la desistenza aggiunge, alle due categorie ontologiche del «già essente» e del «non ancora essente» – iam ens → nondum ens – quella del «non più essente»: non iam (ens). Se è vero che, in senso assoluto, solo dall’Atto può originarsi una potenza-in-atto, è anche vero che, in senso relativo, solo dalla Potenza può non generarsi un atto-in-atto; il teismo ontologico dello iam in praeteritum può essere contrastata dall’ateismo meontologico dello non iam in posterum. Se la Ergìa è stata messa in moto dalla genesi poietica della genitorialità, nulla impedisce che tale poiesi possa essere interrotta; certo, solo gli umani possono concepire la fermata – ἐποχή (-ῆς, ἡ) – che trattiene ἐπέχω [ἐπί + ἔχω] l’Ergìa dal diventare energia biotica o anergia necrotica, e, tuttavia, è ben questo, il Potere sommo dell’Umano: poter scegliere il non iam.
Per dirlo in greco, la teologia dello iam ens è quella dello ἤδη [ἦ + δή]: ἤδη ὄν – e si potrebbe chiamare ede-ontologica l’ontocrazia attuale dell’«a priori» che pretende il prima e il predominio del «già»; di contro, il nondum ens latino potrrebbe chiamarsi οὔπω ὄν e quindi up-ontologica l’ontocrazia potenziale dell’«a posteriori». In greco, il non iam latino (= non già & non più) è οὐκέτι [οὐκ + ἔτι], per cui non iam ens sarebbe οὐκέτι ὄν.
La falsa ipocrisia del credo ontologico si fonda sulla divinizzazione del «già» e sulla demonizzazione del «non ancóra». Il «già» è garanzia dell’«ancóra»: ecco l’àncora di salvezza! L’adorazione del «già» è adorazione dell’«atto»: come potrebbe, da ciò che non è ancóra, originarsi qualcosa? come potrebbe, da ciò che non è già «in atto», generarsi ciò che è ancóra «in potenza»? Esseri umani in atto sono garanzia di esseri umani in potenza: l’atto umano è garante della potenza procreativa. In latino, garanzia si dice sponsio, onis e non è chi non veda la parentela etimologica che la garanzia ha con gli sponsali:
Sponsale agg. e s. m. [dal lat. sponsalis, agg., der. di sponsus (v. sposo), e rispettivam. sponsalia, neutro pl. sostantivato], letter. –
- agg., non com. Coniugale, di coniuge: amore s.; letto s.; l’unione s., il matrimonio.
- Al plur., sponsali, matrimonio, cerimonia nuziale, ancora usato in espressioni di tono enfatico e solenne: l’amnistia fu concessa per gli s. del principe ereditario; oppure iron. e scherz.: bene,vi siete fidanzati: e a quando gli sponsali? In storia del diritto, promessa di matrimonio, come istituto già esistente presso le più antiche genti italiche e continuato, in forme e con conseguenze giuridiche varie, in età romana e medievale: concludere, rompere gli sponsali.
La garanzia sponsale è obbligazione: una sorta di contratto che il «non ancóra» fa con il «già», quasi “obbligato” dall’istinto di conservazione & sopravvivenza. Il «già» relativo al genitore umano aborre il «non ancóra» perché esso è minaccia di estinzione dell’Umano, allora si aggrappa all’àncora del «già» assoluto relativo al Genitore divino con una dinamica assolutamente antropomorfica: se, umanamente, il «non ancóra» può diventare «già» solo mercé un «già» preesistente «in atto», allora, è sperabile che, divinamente, esista un «Già» divino in grazia del Quale possa sempre diventare «già» chi, umanamente, non è ancóra in atto. Eccola, l’àncora di salvezza!
Luca 3,8-9:
«Fate dunque frutti degni della conversione e non cominciate a dire fra voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Anzi, già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco». πᾶν οὖν δένδρον μὴ ποιοῦν καρπὸν καλὸν ἐκκόπτεται καὶ εἰς πῦρ βάλλεται. – Omnis ergo arbor non faciens fructum bonum, excidetur, et in ignem mittetur. – Veramente insopportabile, la buona novella… minatoria, terroristica, nella sua istigazione a procreare: dare frutti, fruttare… frutto buono, frutto cattivo… gettare nel fuoco…
Aristotele, è uno dei padri fondatori del sempiterno «Già». Sì, è vero, nel Libro XI della sua Metafisica, egli è possibilista, circa la reale esistenza di esseri divini: se da una parte dice che «bisogna perseguire il vero partendo da quegli esseri che si trovano sempre nelle stesse condizioni e che non sono passibili di alcun mutamento» (1063a.10), d’altra parte, però, giudiziosamente, va con i piedi di piombo quando dice che «se – εἴπερ – fra gli esseri esiste una realtà di questo genere (separata e immobile – n.d.r.) in essa dovrà consistere anche il divino – τὸ θεῖον – e dovrà essere Principio primo e supremo – πρώτη καὶ κυριωτάτη ἀρχή –» (1064a.35): se, [εἴ περ (o εἴπερ = εἰ rafforzato)]; e, poco prima, lo stesso Aristotele aveva detto che «C’è, dunque, un’altra scienza, (la teologia – n.d.r.) diversa sia dalla fisica sia dalla matematica, la quale studia l’essere separato e immobile – οὐσὶα χωριστὴ καὶ ἀκίνητος –, posto che – εἴπερ – veramente esista una sostanza di questo tipo, ossia una sostanza separata e immobile…» (1064a.30-35).
Però, il filosofo di Stagira non esclude, che possano esistere, esseri separati ed immobili: questa mancata esclusione è la falla filosofica attraverso la quale si infiltrano i virus dell’Assoluto cattolico che la teologia medioevale inocula poi nella religione cristiana.
Gli umani se ne fregano, del prudente εἴπερ aristotelico e, san Tommaso in testa, proclamano, umanamente, la “testa di cazzo” (sit venia verbo) principio supremo della garanzia ontologica. Già… basta che sia già… La divinità che gli umani hanno messo in cielo è metaforicamente (cioè religiosamente) un grande Fallo celeste capace di rendere potenti tutti i falli terrestri… lo si dica senza blasfemia, ma ciò che sta a cuore agli umani è, guarda caso, la stessa cosa che sta a cuore al divino: la discendenza assicurata. Genesi 15:
…fu rivolta ad Abram, in visione, questa parola del Signore:«Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». Rispose Abram: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Soggiunse Abram: «Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle»; e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
…καὶ ἐπίστευσεν ῞Αβραμ τῷ Θεῷ, καὶ ἐλογίσθη αὐτῷ εἰς δικαιοσύνην. –Credidit Abram Deo, et reputatum est illi ad justitiam. – Questa è l’ingiustizia dell’ontodicea! Povera δικαιοσύνη (-ης, ἡ), costretta a professare l’unilateralità ipocrita e falsa del «Già» che subordina e sottomette il «non ancóra» simulando subdolamente la falsità – ὑποκρίνω [ὑπό + κρίνω] – di ciò che ancora non c’è. L’ombra di Lucifero è il Male del «non ancóra» che minaccia il «mai»; la luce di Dio è il Bene del «Già» che promette il «sempre»: ‘giammài sia che il mai sia!’ – tuona il «Già» dall’alto del suo «sempre» –, e intanto minaccia il «mai» per coloro che non hanno in terra adorato il «sempre». In saeculo, il «non-ancóra-in-vita» rende possibile il «mai-più-ancóra-in-vita», ma, in saecula saeculorum, il «non-ancóra-vivo» è dal terrorismo cattolico rinchiuso eternamente nel «mai-più-vivo».
Ma quale stramba ontodicea ha potuto instaurare questa giustizia dell’essere? Semplice: quella della fallodicea umana causata dal terrore del «non-ancóra», e, più ancora, del «mai-più». Che l’errore capitale della procreazione sia un fallo, non ci vorrebbe molto, a capirlo, se solo si riflettesse un po’ sulla dinamica che lega in terra «non-essere-ancóra-per-adesso» a «essere-già», e che collega in cielo «Essere-Già» a «Essere-per-Sempre». In terra, ci vuole un «già» per esorcizzare il «non-ancóra-per-ora»; in cielo, ci vuole un «Già-Ora» per demonizzare il «non-ancóra-per-sempre».
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@ILLUS. by GENE-RICK, 2022