IL FILOSOFO (S)COORDINATO (III PARTE): DIO

Il dibattito tra monoteismo e politeismo procede larvato ma assai presente nella nostra contemporaneità. Se l’Anima si perde nella congerie di produzioni neurologiche e se il Mondo si frantuma in mondi minori ognuno dei quali monocraticamente plurale – con il conseguimento della massima discrezione possibile (acquisto letterale si potrebbe dire: gli indiscreti non sono ben visti…) – elevando il suo totem ed abolendo il tabù (tranne quello dell’indiscrezione ça va sans dire), l’unità di tutte le unità sembra essere di diritto non più percorribile come strada. Eppure una ricerca di totalità, di unificazione è sempre à la page: non passa mai di moda e impone riflessioni. Però la via è impervia e lo scontro inevitabile: l’Uno in sé – così si afferma – è pericoloso. Porta seco il germe della violenza, della prevaricazione e della sopraffazione. Provare a pensare l’Uno dopo il secolo che ci ha preceduti è puro irrazionalismo, meglio ancora, mera irresponsabilità: per questo, nascosto, ma molto più presente di quanto non voglia darsi a vedere, si rinnova il dibattito. Il politeismo, in quel valore aggiunto che è dato dalla precedenza del poli- al -teismo, celebra la sua elasticità, financo la sua magnanimità, nella tolleranza della discrezione: non esistono figli di un dio minore. Ma figli di Dei Maggiori. Epperò, si potrebbe pensare maliziosamente, tutto ciò altro non sarebbe che il piano malvagio di una Volontà – più potente ancora, di un Intelletto – che farebbe impallidire l’aliquem malignum genium di cartesiana invenzione: l’armonia prestabilita superna che tesse le fila, compiaciuta dell’invisibilità del suo potere.
Così in effetti si esercita la dicotomia su menzionata. A conti fatti, il politeismo longanime lascia il posto ad un più rassicurante – in volto ovviamente – monoteismo monocratico che si è incaricato di mettere ordine alla disseminazione imperante. Ordine che non può essere stabilito che tramite un conferimento di dignità massima alla disseminazione stessa: quest’ultima si è liberata lasciandosi alle spalle tutti i totem e (quasi tutti) i tabù, mentre il primo non fa altro che rendere totem il tabù che fa rientrare dalla porta principale, essendo stato cacciato dalla finestra (o dalla porta sul retro). Certo, non si parla più di una Volontà o di un Intelletto, facilmente tacciabili di malvagità; non è più la personalizzazione ad essere criterio di valutazione e di giudizio. L’istanza ora si fa impersonale. Molto più efficace. Almeno di una divinità che subisce gli sbalzi di umore di un organismo biochimico.
La questione è che la domanda su Dio non sì è mai interrotta. Si è solo inabissata, sprofondando in quei punti oscuri che la storia non ha tempo di illuminare. Questione di fondo che è doveroso scardinare dalle attualizzazioni odierne: (s)coordinare le richieste è la via da seguire.
Ora è l’algoritmo a istituire ciò che è l’armonia tra le parti: la Forma ha lasciato il posto alla formalizzazione; le forme sono semplicemente le manifestazioni non fungibili, istanziazioni inconsistenti. Il centro del problema è proprio la definizione di divinità che da questa innovazione tecnologica proviene: già nei primi anni ’60 Norbert Wiener – considerato il padre della cibernetica – si era reso perfettamente conto della natura teologica di strumenti di informazione, di trasformazione dell’informazione nell’informatizzazione di processi tramite formalizzazione. Se Dio è Tutto, allora resta da sapere cosa sia questo tutto: il dualismo monoteismo-politeismo, lungi dall’essere una sterile contrapposizione tra fazioni avversarie, si carica di un significato metafisico primario. È la riproposizione modernizzata dell’antico dibatto tra l’Uno e i Molti, la lotta cratica tra il Dio e gli Dei; è la disputa ontologica tra il monismo e il pluralismo. Ed è proprio nell’intersezione di questi estremi giustapposti che si aprono le maglie per una presa di coscienza diciamo molecolare, una penetrazione nella densità della fitta nebbia che con-fonde e indifferenzia: resta il passaggio all’in-differenza, a ciò che è, in Dio, nella differenza con Dio. È il con- di ciò che non è con-fuso, ma che, in quanto con-, è già di per sé nella pluralità di una compagnia. Interrogarsi sulla natura di Dio comporta la (s)coordinazione dalla linea che conduce là dove non può esserci che l’estremo, singolare o plurale che sia. Rivolgere la propria attenzione a Dio è rivolgere il proprio questionare anche alla domanda antropologica.
L’arte, allora, ci viene in soccorso. Nell’atto creativo si è soliti ritenere la nostra familiarità con Dio: è una somiglianza, certo; non una uguaglianza. Una somiglianza di famiglia per dirla alla Wittgenstein. Ci strappa dall’algoritmo, paradigma del dio odierno; ci fa perdere tempo, su Internet, ingannando il suo inganno, trasfigurando il banale gesto della digitazione in un surplus di senso, in un tempo preso, catturato da una creatività ribelle all’acquiescenza dell’applicazione di un automatismo istintuale (il famosissimo clickbait). Così la perdita si fa vittoria, la trasfigurazione, nella sua carica divina, si fa umana nell’atto più umano di avvicinamento a Dio: il copia-incolla, il riempimento del carrello Amazon, il video dei gattini diventano così arte, gesto rivoluzionario di riottosa autonomia decisionale. Così Goldsmith ritaglia per sé e i suoi studenti un angolino appartato, la cui carica dirompente rischia di mandare in crash il sistema. Si rinnova la sfida, da sempre iniziata: l’arte è agonismo, agone – umano tutto umano – contro Dio (Steiner).
Tuttavia, l’algoritmo è immune a tali critiche: ha colto pienamente la natura divina e vi si è confermato. Dio non fa semplicemente le cose; un dio creatore è un dio debole. Sarebbe un dio umano, artista; un dio a misura d’uomo. Dio fa in modo che le cose siano, fa sì che ci possa essere creazione, che la creazione avvenga. Non fa la creazione, ma è la condizione di possibilità della creazione stessa. Non delle creature: ma della creazione in quanto atto. L’essere di Dio è il trascendentale dell’atto che fa sì che Dio sia creduto creare. Per questo l’algoritmo è potente: fa cose, ma non le fa semplicemente, artigianalmente. Artisticamente. Fa sì che le cose siano, e siano istanziazioni di una formalizzazione. Si può affermare, in fondo, che non fa che le cose siano: fa in modo che le cose non siano, non siano altro che non-cose. Nulla si con-fonde, ma tutto è indifferente: nessuna differenza, essendo nulla in differenza. Massimo dell’astrazione. Diagnosi: acosmismo.
Ma un Tutto astratto è veramente Tutto? Già Hegel ci ha mostrato che il Tutto è, per essere Tutto, inevitabilmente concreto. Ma il filosofo tedesco piegava l’astrattattezza alla concretezza dialettica che dinamicamente mediava, trasformava, salvava e spostava. Risolveva i problemi in una unità che si lasciava tutto alle spalle, necessariamente superato. Altrettanto conservato. Come passo. Come trapasso. La sua concretezza non si accorgeva della ricchezza di quel Mondo che salvaguardava al contempo. E sacrificava al tempo di una Storia che altri non è che il concreto (in) divenire. Hegel superava il principio dualista di non-contraddizione ma ricadeva in quello dialettico che entrava in giustapposizione con il fissismo eleate e teologico tradizionale. Il suo Tutto era privo di una cosa.
Del paradosso. Dio come tutto è il paradosso, la compresenza delle vie alternative, della sinistra e della destra, del mondo e della forma, della differenza e dell’indifferenza (dell’identità). Dio come paradosso è il centro da cui scaturiscono le divergenti direzioni, divergenti solo grazie a quella convergenza come punto liminale da cui la divergenza ha principio. È lo spazio all’interno del quale ciò che non ha spazio lo ottiene, è il luogo della storia e del mondo, dell’atemporale universalità e del particolare coinvolgimento; è il luogo dell’etica e della teoresi, delle operazioni e delle strutture (Simondon), delle reti e delle lenze. Dell’anima e del corpo. Dell’uomo e di Dio.
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@ILLUS. by FRANCENSTEIN, 2022
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