IL GIOCO DEI CAVALIERI
Napoli, 17 settembre 1989. Allo stadio San Paolo del capoluogo campano i padroni di casa accolgono la Fiorentina in maglia bianca. Attorno al ventesimo del primo tempo, il numero 10 dei toscani raccoglie la palla nella propria metà campo e comincia a correre, conducendo la sfera con tecnica innata, in modo tanto perfetto da sembrare naturale. Supera un avversario, poi un altro ancora, poi il portiere, infine deposita il pallone al fondo della rete. Fiorentina in vantaggio grazie al gol di Roberto Baggio, che raccoglie financo l’applauso degli avversari, obbligati dalla morale sportiva a onorare un’azione esteticamente sublime.
Filadelfia, Usa, 23 settembre 1952. Rocky Marciano aveva ventinove anni quando conquistò il titolo mondiale dei pesi massimi sconfiggendo alla tredicesima ripresa Jersey Joe Walcott, incamerando la vittoria grazie a un diretto e un gancio decisivi. Potenza titanica, grinta temibile, resistenza quasi innaturale, da quel giorno il pugile italo-americano dalle origini abruzzesi difese il titolo per sei volte, concludendo la carriera con un palmarès che si commenta da sé: 49 incontri disputati, 49 vittorie, 43 ko. La morte prematura causata da un incidente aereo trasformò definitivamente il ricordo di Rocky Marciano in leggenda.
Roma, Olimpiadi 1960. Abebe Bikila aveva ventotto anni e gambe ancora integre, prima che un incidente ne interrompesse la capacità motoria. Nella capitale italiana il giovane maratoneta etiope arrivò a regalare un’emozione che aveva nel contempo implicazioni politiche, simboliche, allegoriche. La corsa a piedi nudi e la medaglia d’oro diventa sua, icona di un capitolo ineguagliato nella storia dell’atletica leggera.
Tre storie diverse, ma complementari in termini epici, estetici e narrativi. Perché lo sport può essere epica, estetica e leggenda. In esso il fanciullo può esperire qualcosa di simile al brivido dell’epopea cavalleresca e nella competizione riscoprire il senso più nobile della battaglia. Il genio sportivo e il talento possono infatti risvegliare ataviche ambizioni, virtù ancestrali o nobili eroismi. È infatti quasi stereotipata l’immagine del giovane indigente o sofferente che trova nello sport un’occasione di riscatto, diventando modello emulativo e archetipo dell’eroe.
Perché lo sport può davvero essere epica, estetica o leggenda quando testimonia la fatica, il sacrificio, l’empito. Può davvero diventare occasione di riscatto, spazio di confronto, situazione di conoscenza e di crescita morale. Attraverso il corpo l’atleta esperisce il sacrificio e il sudore, la necessità della disciplina e del rigore.
Ebbene il mondo contemporaneo, dominato dal rovesciamento di qualsiasi categoria, ha fallito anche in ciò. Consunto dalla spettacolarizzazione e dal denaro, lo sport ha finito per smarrire la connotazione etica e letteraria, diventando mero intrattenimento vacuo e privo di slancio, privo di bellezza. Il modello emulativo non è più quello sognante e spirituale del talento, ma quello umano troppo umano delle cose inutili e transeunti. Il campione sportivo, nel mondo rovesciato della contemporaneità, non ispira desiderio di emulazione per il talento, qualità della quale invero spesso difetta; raramente testimonia una storia di riscatto e di sacrificio, non stimola la voglia di diventare migliori, di oltrepassare i propri limiti, ma suscita al contrario solamente spurie e animalesche invidie materiali. Sintomo quotidiano di tale tendenza, quello del giovane corrotto dalla logica mondana che guarda allo sport come un mezzo per ottenere felicità effimere e illusorie, denaro facile, beni materiali. A costui, infatti, non importa di interpretare il sacrificio del corpo come un’avventura cavalleresca, poiché ciò è diventato fondamentalmente inconcepibile per chiunque risulti ineducato alla bellezza.
Ritorna pertanto l’urgenza di rilevare come ogni cosa, fuori da una lettura trascendente, sia destinata a svanire, a perdere la propria essenza, a confluire nell’oblio. Baggio, Rocky Marciano, Abebe Bikila e mille atri campioni ricordano l’importanza di vivere lo sport come un’avventura fatta di emozioni, simboli, bellezza, talento e lavoro. Ma anche come un gioco, ovverosia come dimensione sociale di interazione e testimonianza. Due capacità, appunto quella del gioco e quella dell’avventura, delle quali soltanto l’essere umano può essere capace.
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