L’IMPERTURBABILITÀ DEL MOSTRO, LA PASSIONE DELL’UOMO. GLI EMISSARI DEL DIAVOLO: PAROLA, RELAZIONE, SIMBOLO, MEMORIA, VOLONTÀ E DISPERAZIONE
In questo discorso si tratta delle situazioni particolari in cui l’uomo subisce la condanna che gli è propria, quando egli essendone in presenza può dirsi caduto, tentando, per amor di discorso, di coglierle sotto il segno della parola (che in quanto tale è generale) Errore. Così abbia nome l’essente che, odiando la Verità, vuole figurare come parte più infima del Tutto (ma infima è un nome). Qui sono brevemente indicati alcuni aspetti che possono dirsi manifestazione dell’Errore, gli errori.
Il Diavolo[1] non ha una sua posizione esclusiva. L’Errore non si oppone alla Verità. Tuttavia non segue da ciò che il Diavolo debba essere mondato da Quella, piuttosto è all’interno di Ella compreso. L’Errore che costituisce la negazione della Verità appare (quando appare) e necessariamente è parte di per sé evidente (assiomero).
Le modalità dell’apparizione dell’Errore che nega la Verità, senza poter realizzare la negazione, sono qui raccolte sotto la parola Errore, la quale intende tenere concepta[2] gli individui cui si dia nome di errori, tenendo fermi nella memoria l’impressione che l’apparizione di tali errori ha lasciato. Ciò a opera di un intelletto che si dice soggetto di tale concepimento per costituzione del corpo del discorso e non perché l’operazione sia realmente sua (o un’operazione che opera). Pertanto non si ha bisogno di dirimere in questo discorso la questione che indaga se l’intelletto operante sia individuale o universale. (Per altro l’intelletto nemmeno dà notizia di sé, dunque è dubitabile che possa dirsi individuo). Individuo che appare è piuttosto la parola Errore che vuole significare e collezionare sotto di sé ogni individuo detto errore apparso in precedenza e significato dai ricordi e ogni individuo a essi simile di cui non è nota l’apparizione né il ricordo. Essendo il significato della parola Errore (universale) di costituzione approssimativa e stimata, non essendo praticabile la verifica che essa significhi effettivamente tutti gli individui che intende significare, è da intendersi come appunto parola o nome. Il significante Errore è anch’esso individuo che ha estensione e operatività (che non opera ma è) limitate alla sua posizione e a ciò che gli è prossimo.
Detto ciò a introduzione, che si premura di non lasciar intendere un realismo dell’universale-Errore né di sacrificare la Realtà in nome dei discorsi, ci si può addentrare nel discorso. E in effetti se si è ben inteso già sarà apparso il significato posto a scansare l’inganno della parola. Essa tenta di mostrarsi per ciò che non è, ossia tenta di apparire diversa dagli altri individui che appaiono con lei nella mente. Non solamente diversa quanto si segnala come diverso il lato sinistro di un aspetto dal lato destro dello stesso aspetto; vorrebbe essere radicalmente diversa, distinta senza contiguità con il mondo dei significati con cui, tuttavia, vorrebbe rapportarsi.
Così la menzogna della parola, se creduta, diventa vera falsità. Ma il processo (discorsivo) che condurrà alla manifestazione di tale falsità è all’inizio.
Poiché se appare la parola posta a significare il significato che essa ri-tiene e a cui si vincola in un quadro in cui appare anche l’individuo che ne è il significato ri-tenuto, allora non vi è apparizione di errore né una sua latenza. Se, però, la parola appare come significante di un significato che appare come individuo che, in realtà, è anch’esso nome che sostituisce una determinazione non presente, facendosene immagine (ricordo), o si fa carico di determinazioni non presenti raggruppate (universale), ma nella parola e nel ricordo giammai state gruppo (cioè prossime, contigue), allora l’errore appare (c’è). Tuttavia, in questo caso appare come latente e non si manifesta nella mente di chi tuttavia ne è in presenza. Piuttosto è agli uomini assiomatici (o filosofi) che tale errore può apparire (e così è). Tuttavia l’errore, scorto, per tali uomini non è tale.
È anche da dirsi che una frase come: “Le banane sono banane” è una negazione della Realtà (se intende separare le banane dal resto della Realtà). Chi dice una simile frase non può sapere cosa vada dicendo. Non sa tenere distinta una banana dal resto, perché quella toccherà sempre una qualche altra superficie. Non sa quale sia l’estensione di una banana di cui purtuttavia è in presenza, poiché quella si muove e si disgrega tale che non si sappia quale sia la quantità sufficiente di parti che la componevano tali che essa rimanga sé stessa[3]. Men che meno, chi afferma tali cose, è mai stato in presenza di tutte le banane che si immagina possano essere locate nel Tutto (in cui non sa comunque distinguere individui se non ritenendoli, se li ri-tiene, né gruppi se non ri-tenendo pure questi con le difficoltà emergenti trattate testé). Inoltre la parola banana non è una banana.
I filosofi questo lo sanno e vedono l’errore, sopportandolo non patendone. Altri uomini no, pensano di intendere la banana e tutte le banane; con ciò la Realtà sarebbe lesa (se potesse esserlo), perché è la realtà esclusiva della banana individuata che ritengono e la realtà esclusiva del gruppo di tutte le banane (codificate o meno sotto un banana-tipo). Seguono a questi errori inconsci ulteriori errori dovuti alla necessità di concepire la relazione che faccia da medium tra concetti che sono diversi, separati da una distinzione erronea, ma non rilevata. Ma anche qui, alla disponibilità di chi erra ignaro l’Errore continua a rimanere celato e non può farsi pungiglione. Può, piuttosto, manifestarsi a chi, semi-filosofo, lo avverte nelle parole altrui e tenti, inferocito, di dirimerne i discorsi in modo da scacciarne la presenza e anche la latenza. (Quest’evenienza sarà trattata più avanti nel discorso).
Simile svolgimento delle questioni intorno alla parola e alla relazione spetta al simbolo. Quello che tenta di significare altro da sé, essendo sé e altro da sé (sun-ballo, gettare insieme), vorrebbe implicare una corrispondenza necessaria tra sé e il suo significato, tale da rendere i due inseparabili. In ciò è simile alla parola, che in effetti, è dicibile simbolo, ma del simbolo (oggetto simboleggiante) raramente si assume che sia di un ordine ontologico differente da quello di altri oggetti; talvolta si ri-tiene, però, che esso si leghi a un significato totalmente diverso (eteron), estraneo al mondo del simbolo e pertanto di differente ordine ontologico. È questo il simbolo che connette al sacro. In tali casi la manifestazione dell’Errore è prossima. L’Errore è certamente presente, ma ancora rimane celato, per chi non s’avvede dell’impossibilità di indurre una dimensione totalmente altra a partire dalla propria e per chi non nota che l’oggetto simbolico significa sé e altro da sé solo se così è, poiché ha estensione e co-significato limitati alla sua posizione e all’orizzonte di senso in cui appare (ciò anche qualora il simbolo connetta sé a un significato non trascendente). Tuttavia, che l’Errore resti occulto non può dirsi di chi avvertendolo nel simbolo, si strugge.
Così nella memoria: ricordando si erra e si vaga riempendosi di presenze assenti. Assenze che, a dir il vero, sono presenze a immagine di altre presenze non presenti e, dunque, si dica ricordate. Chi ri-tiene che il ricordo sia assenza di una presenza erra e nasconde l’errore. Chi ri-tiene che il ricordo sia, dunque, sia presenza di un’assenza (presenza con aspetto di simulacro di presenza non presente) vede l’errore, ma non ne è scottato. Si scotta e brucia di un fuoco greco chi ricordando si pente.
L’Errore è pronto a disvelarsi e a colpire con tutta la sua potenza. La potenza esplodendo, irrompe ingiustificata. Come è già emerso in questo discorso essa è volontà. Volontà che vuole l’impossibile. Cambiare ciò che appare, ossia negarlo. Quando vuole dirimere i discorsi che ignari del loro errore negano la Verità, quando vuole riconsegnare ogni cosa al sacro d’innanzi a chi lo dice separato da questo mondo, quando vuole annientare l’essente per alterarlo è nella volontà che si manifesta l’Errore: Fuoco che arde desideroso di distruggere, ma non tange alcunché e nutre sé stesso.
La volontà è rabbia, la rabbia è disperazione. La disperazione è la condizione propria del caduto, l’ultimo aspetto del Mostro che fa visita all’uomo per somministrargli la sua condanna. L’ultima prova nell’arena di Sofia[4].
I filosofi, uomini assiomatici, conoscono l’apatheia della Verità e sanno che Tutto è indiscutibile e che non parla, non ha legati, legami né simboli, non ricorda perché, piuttosto, si sa e non è potenza che possa agire e patire, perché piuttosto, è. Cionondimeno i filosofi non sono al sicuro dai mostri, gli errori! Perché è il Mostro (la Realtà) che già è posto per tutti. Egli può farsi errore/orrore, spada che trafigge l’anima, se è Destino.
P.S. Il vero filosofo ama a tal punto la Realtà, Sofia, da non criticarla in caso alcuno e da accettare qualunque suo aspetto. Poiché omnia, inquantum sunt, bona sunt. Tuttavia i gonzi che raggiungano un tale livello di apatia sono talmente silvani da essere vegetali e indistinguibili dai nichilisti compiuti o, talvolta, dai morti.
[1] La Volontà impossibile del Diavolo, il caduto per antonomasia, è quella di porsi come alternativa alla Verità. Per far ciò innanzitutto dovrebbe stargli innanzi, distinguendosi da quella, ma non può: segue la condanna infernale. In questo discorso Diavolo si fa nome dell’errore, ma ciò non valga necessariamente anche al di fuori di tale discorso.
[2] Vd. Conceptum/Exceptum.
[3] Vd. Oggetto e Cosa.
[4] Ciò non significa che disperarsi renda filosofi. Bisogna disperarsi al punto di morire in conformità con quanto scritto da Schelling.
L’immagine è una rielaborazione di un’opera di Kev Walker, apparsa sulla carta da gioco di Magic: The Gathering, Null Profusion – Parsimonia.
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@ILLUS. by JOHNNY PARADISE SWAGGER, 2019
Si può dire che vi siano almeno un paio di schiere di filosofi:
– i filosofi “sacerdoti”, i quali, lungi dal separarsi dal Mondo per la Verità (che poi sono la medesima cosa), si allontanano giusto dai discorsi problematici, il problema della realtà, e in generale dai discorsi;
– i filosofi “guerrieri”, i quali, per volontà scolpita di Sofia (così come anche per i “sacerdoti”), si accendono di sublime furore per mortificare i discorsi erranti.