METAMORFOSI DEL SÉ: NARCISO, LO SDOPPIAMENTO (Parte I)

Instabile, fragile, incerta, l’identità si mantiene in equilibrio precario su un abisso vorticoso, al di sotto del quale vi è il nulla, o il tutto, dipende dalla prospettiva; voluta, cercata, creata, in una convinzione intrinsecamente ossimorica, dove la vista è cecità e la ragione è follia, perché ossimorico è, in fondo, il reale stesso, così metamorfico e proteiforme, in un divenire perenne che è fluida compenetrazione di essere e nulla. È il tramonto traumatico del γνῶθι σεαυτόν, è il rovesciamento della sua limpidezza apollinea, chiara, statica, che si rivela nella propria vacuità e superficialità, quasi che l’identità stessa non fosse altro che un fragile schermo difensivo dall’irruzione del reale, che è caotica commistione di menzogna e verità, io e non-io, vita e morte: il reale è, essenzialmente, la metamorfosi. Ed eccoci di fronte al mondo poetico ovidiano, al mondo stesso ovidiano, si potrebbe dire con Charles Segal, secondo cui:
Il mondo di Ovidio, al contrario di quello virgiliano, non conosce un centro stabile: vacilla, e talvolta frana. La sua immagine è proprio la metamorfosi: non l’essere ma il divenire, non l’essenza ma l’esistenza, non l’eternità ma il cambiamento, non il messaggio ma il medium.
È evidente, dunque, che in un mondo con questi connotati l’identità è destinata a dissolversi, a sdoppiarsi, moltiplicarsi, immergersi nel fluire magmatico e inafferrabile della vita: l’io si rivela un inganno, perde conoscenza di sé e consistenza, incapace di determinarsi e di sentirsi, messa in discussione, traumaticamente, la sua unità individuale. Il tratto ovidiano, nella sua precisione plastica, dà una raffigurazione tangibile ed iconica di questa condizione, elevandola a emblema antonomastico dello sdoppiamento e della dissoluzione del sé: Narciso, nella sua ambiguità e nel suo dramma, scisso e confuso tra realtà e illusione, soggetto e oggetto, sé e sé.
Qui il ragazzo, spossato dalle fatiche della caccia e dal caldo, venne a sdraiarsi, attratto dalla bellezza del posto e della fonte, ma, mentre cerca di calmare la sete, un’altra sete gli nasce: rapito nel porsi a bere dall’immagine che vede riflessa, s’innamora d’una chimera: corpo crede ciò che è solo ombra […]. Disteso a terra, contempla quelle due stelle che sono i suoi occhi, i capelli degni di Bacco, degni persino di Apollo, e le guance lisce, il collo d’avorio, la bellezza della bocca, il rosa soffuso sul niveo candore, e tutto quanto ammira è ciò che rende lui meraviglioso. Desidera, ignorandolo, sé stesso, amante e oggetto amato, mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde (Ovidio, Metamorfosi, Libro III, vv. 413-426, nella versione curata da Piero Bernardini Marzolla).
Si nota immediatamente come il lineare andamento narrativo, pur non arrestandosi in una fissità che impedirebbe il proseguire stesso della vicenda, sia circoscritto ai vv. 413-414, che lasciano spazio, a partire dal verso 415, a virtuosismi, ambiguità, giochi retorici dal forte valore descrittivo, di una descrizione, però, che non si limita, in maniera statica e distaccata, a riportare in termini poetici ciò che l’occhio dell’immaginazione ha di fronte a sé, ma tenta, amalgamandosi con esso, di riprodurre e scomporre l’oggetto stesso, nel suo divenire e nella sua contraddittorietà, con l’obiettivo non già di fare apparire reale ciò che reale non è, bensì, più studiatamente, di restituire la vicenda e gli oggetti in essa coinvolti nella loro dimensione polimorfica e cangiante, nei loro dettagli commisti di spirito e materia.
Così, pur non indulgendo mai a patetismi compartecipati o a rarefazioni spiritualistiche del dato sensibile, la narrazione si fa specchio della psiche, e il contraddittorio letterario diventa contraddittorio psicologico: dunque sitim sedare cupit, sitis altera crevit, Ovidio gioca col termine sitis, e, utilizzando sapientemente il medesimo ordine sintattico all’interno dei due emistichi, lo mette in apparente contraddizione con se stesso, attraverso uno sdoppiamento semantico che suggerisce lo sdoppiamento psichico cui, poco dopo, Narciso comprende di essere condannato. La molteplicità prospettica e relativistica ovidiana, che è poi «relativismo dei valori» e dell’essere stesso, secondo definizione di Antonio La Penna, si insinua nella descrizione dell’oggetto per darne una visione simultanea e polioculare, che si avvicini alla fluidità del divenire: spem sine corpore amat, corpus putat esse, quod umbra est, i tre cola in cui è diviso il verso permettono uno spostamento continuo del punto di vista su una stessa immagine, l’immagine su cui si impernia l’intera vicenda: il riflesso di Narciso nell’acqua, che è sine corpore, ma viene ritenuto e amato come un corpus, pur essendo una semplice umbra. E si potrebbe proseguire indefinitamente, in questo specchio contraddittorio di rimandi illusori e reali che produce – per utilizzare termini di Gian Biagio Conte – un «effetto di vertigine, di fuga labirintica», a tal punto che «il racconto sembra germogliare continuamente da se stesso e allontanarsi in una prospettiva infinita, in una dimensione fuori dal tempo».
Presentata nella sua intrinseca e trascinante contraddizione, l’immagine riflessa nell’acqua viene, tra i vv. 420-424, restituita nel suo fascino irresistibile, con insistenza su dettagli estetici spiccatamente sensuali: «dignos Baccho, dignos et Apolline crines / inpubesque genas et eburnea colla decusque / oris et in niveo mixtum candore ruborem», giustapposti in una accumulatio che culmina, sentenziosamente, al verso 424: «cunctaque miratur, quibus est mirabilis ipse», e qui, come si evince dalla figura etimologica miratur-mirabilis, converge tutta la doppiezza della vicenda, che, nei versi immediatamente successivi, conduce a uno smarrimento totale, al limite della comprensibilità, al limite della riconoscibilità: è lo smarrimento dell’identità stessa, effetto del suo sdoppiamento.
«Se cupit inprudens et, qui probat, ipse probatur, / dumque petit, petitur, pariterque accendit et ardet», Ovidio soppesa ogni parola di questo distico e, artigiano del verso, plasma e flette i termini affinché si carichino di quella ambiguità che vuole, complessivamente, trasmettere, donde l’utilizzo di uno stesso verbo cambiato di diatesi, probat-probatur, petit-petitur, attivo e passivo, soggetto e oggetto, io e Altro, desiderante e desiderato in un medesimo corpo, l’unità è duplicata, smarrita è l’identità, «come se due soggetti, concordi nell’amore reciproco, coabitassero assurdamente in un involucro fisico, costretti a convivere, per morirvi, in un’anima sola», chiosa Ezio Pellizer.
Narciso si consuma così in un desiderio cieco, «quid videat, nescit» (v. 430), ignora ciò che vede, «quid decipit, incitat error» (431), è l’illusione stessa ad alimentare la passione, il desiderio di possedere quell’immagine così chiara e così vicina eppure irraggiungibile e intangibile, «minimum est, quod amantibus ostat» (v. 453), è un nulla ciò che separa i due amanti, le due parti del sé, di una coscienza che non può mai, totalmente, essere coincidenza piena di sé a sé, per utilizzare il lessico fenomenologico sartriano de La trascendence de l’Ego. Ma poi, improvvisamente, arriva l’agnizione, che, nel caso di Narciso, è il tragico riconoscimento dell’impossibilità di riconoscersci, di essere un uno con se stesso, e il dramma scatuirsce proprio da questa constatazione, dal vedersi riflesso, oggettivato, alienato in un’immagine di cui non ci si può appropriare, che appartiene all’Altro, che è l’Altro. E la disperata affermazione di Narciso «Iste ego sum!» (v. 463) esprime, nel contempo, l’insuperabilità dell’identità e la sua alienazione, come a dire che dall’io non ci si può effettivamente liberare, ma che questo ego è un iste, l’io è un altro verrebbe rimbaudianamente da dire, e il desiderio, pertanto, quand’anche sembri rivolto verso il sé, è sempre lacanianamente «desiderio dell’Altro», sia pur, per Narciso, dell’altro che lo abita, dell’altro che abita il sé.
L’Iste ego sum suona, d’altronde, così simile al «je est un autre», ne è forse l’aspetto preliminare e complementare, è il riconoscimento dello sdoppiamento, della non coincidenza a sé, che precede il dissolvimento stesso del sé, dissolvimento che, a sua volta, è il presupposto di una successiva metamorfosi del sé, come la vicenda di Narciso dimostra, e come il concetto stesso di metamorfosi sembra sottintendere, se accogliamo la definizione di Segal di metamorfosi come espressione del «carattere fluido e precario dell’identità» inscindibile dalla «fissità del carattere, un’identità cui l’individuo non può sfuggire»; similmente, secondo Piero Bernardini Marzolla
la metamorfosi è di per se stessa un fenomeno ambiguo […] un dramma duplice: quello dell’io che ha perduto la propria identità, cioè i connotati che permettono all’altro di identificarlo, che lo rendono riconoscibile agli altri, e quello dell’io che non riesce a esprimersi.
È il fallimento definitivo del γνῶθι σεαυτόν, un crollo ambiguo e traumatico, che reca con sé un che di tragico, del mondo ovidiano è – con parole di Ramous – il «volto travagliato che sotto l’atteggiarsi del sorriso nasconde l’inquietudine e, sì, una profonda tristezza, un pessimismo senza alternative». Lo smarrimento di Narciso è massimo e disperato, «Quid faciam? Roger anne rogem? Quid deinde rogabo?» (v. 465), perduto nell’incertezza, sdoppiato, trasformato, incapace di conoscersi, lacerato da un dubbio che lo rivela in tutta la sua doppiezza, da cui non può scappare, «O utinam a nostro secedere corpore possem!» (v. 467): non gli resta che augurarsi di separarsi dal proprio corpo, quel corpo che ama e odia, che possiede e non possiede, quel corpo che è la fonte prima della sua sofferenza.
Vi è, in questo, un che di edipico, dell’Edipo sofocleo, naufragio dell’identità, perdita dell’unità soggettiva conoscente, sguardo gettato dentro l’abisso che abita il sé; la conclusione è massimamente tragica: l’io non è più padrone a casa sua, das Ich ist nicht Herr im eigenen Haus, freudianamente. Edipo è forse il fratello, maggiore o minore che sia, di Narciso; le loro parabole esistenziali – è vero – sono assai differenti, parrebbero non comparabili, eppure è proprio nel momento in cui esse diventano antitetiche l’una all’altra che emerge la loro stretta parentela, causa della drammatica fine che accomuna i due: il dissolvimento smarrito dell’unità identitaria. Narciso desidera se stesso in quanto oggetto amato, Edipo perseguita se stesso in quanto oggetto odiato: entrambi, essenzialmente, cercano fuori di sé quell’Altro che li abita, e, riconosciutolo, ne rimangono profondamente spaventati, disgregati ontologicamente.
Metamorfosi del sé: Edipo, la dissoluzione continua su Arena Philosophika >>>
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