LA STRADA PER EL DORADO
In occasione degli Ozii di Santo Stefano ecco qui di seguito recensito il film di animazione “La strada per El Dorado”, 2000.
Tulio e Miguel sono due gonzi spagnoli. Ladri e truffatori conducono un’esistenza di espedienti in terra natia fino a quando si imbarcano per caso sulla nave di Cortés direzione nuovo mondo.
Imprigionati, si liberano, naufragano in compagnia di Altivo, il cavallo bianco di Cortés, approdando a lidi sconosciuti.
Fortunamente per loro finiscono proprio dove volevano andare (o perlomeno Miguel), ossia in un posto che potrebbe essere nei pressi di El Dorado, mitica città d’oro.
Miguel aveva infatti ancora con sé una non troppo dettagliata mappa per appunto El Dorado, trafugata prima della partenza.
Il biondo è in cerca di avventura, Tulio (bruno col codino) di ricchezze, quindi entrambi troverebbero nella fantomatica città d’oro quel che desiderano.
La trovano, vengono scambiati per dei (due e, quindi, non ontologizzati) dagli indigeni e vengono osteggiati dall’autorità religiosa di quelli, Tzekel-Kan. Ciò fino allo scontro finale con lui che, scoperta la loro natura umana, gli scaglia addosso un giaguaro gigante di pietra.
Sconfitto l’idolo devo impedire l’arrivo di Cortés…
“La strada per El Dorado” (The Road to El Dorado), 2000, Dreamworks, 89′. Regia di Eric “Bibo” Bergeron, Don Paul, Will Finn, David Silverman.
Commentario
L’idea che il senso della vita possa consistere nell’accumulo e nella conservazione delle ricchezze sarebbe follia per gli indiani Kwakiutl, che ammassano ricchezza per poterla distruggere…
Queste sono parole di Cornelius Castoriadis (L’institution imaginaire, 1975, p. 38), il quale rimprovera alcuni ‘marxisti’ di considerare questi dati “alla stregua di curiosità etnologiche. Ma se c’è una curiosità etnologica in tutta la questione, sono proprio questi ‘rivoluzionari’, i quali hanno eretto la mentalità capitalistica a contenuto eterno di una natura umana che è dappertutto la stessa […] dimenticando nei loro ragionamenti i due terzi della popolazione mondiale”!
Il filosofo ed economista greco-francese sosteneva che per rimanere rivoluzionari bisognasse abbandonare il marxismo e che nel progettare una società autonoma fosse necessario concepire l’essere come creazione perpetua. Un principio assiologico cieco e privo di aspetti che è inesauribile fonte, infinito potenziale, traboccante di determinazioni effimere; materia che è possibilità permanente di sensazione (J. S. Mill) e in-formazione, sicché il soggetto umano possa plasmarla costituendosi come immaginazione radicale e determinando la società come immaginario radicale.
Le due riflessioni, su curiosità etnologica e ontologia radicalmente contingentista, trovano un punto di incontro e rappresentazione nel film. Gli abitanti di El Dorado, similmente agli indiani Kwakiutl, infatti, hanno un’usanza cui sottopongono loro malgrado Tullio e Miguel.
Questi, scambiati per Dei, vengono sommersi di ricchezze come da loro richiesto, ma alla consegna dei preziosi gli viene domandato: “A Shibalba?”
I due incautamente replicano: “A Shibalba!!!” La conseguenza è che gli indigeni iniziano a gettare tutte le ricchezze in un crepaccio, profondo e oscuro, abisso senza fondo. Il tributo è a Shibalba (Xibalba), luogo misterioso e occulto (xibil) agli uomini, associato alla morte, proprio della mitologia Maya. L’aureo lusso trova nell’abisso la sublimazione. Fortunatamente i due spagnoli riescono a ricucire le incomprensioni dovute alla distanza culturale grazie a Cielo, la quale riferisce al Capo Tannabok che gli “Dei”, a quel punto, preferivano bearsi.
Shibalba, ovvero l’indeterminazione prospettica. Sede dell’altro (eteron), poiché (relativamente) assente. Buco supposto senza fondo che è l’arché come il telos di ogni cosa e da cui escono Dei e affondano valori. La logica che sottende il ragionamento di Castoriadis e degli indiani Kwakiutl (nordamericani) che egli cita è la stessa. Ed è la stessa dei Maya come vengono raffigurati in La Strada per El Dorado.
Il buco, pensato come reale annientamento dagli indiani e come reale produzione da Castoriadis, non può che costituirsi nell’immaginario come teleologia trascendentale.
Lo scotto da pagare per chi, nella speranza di pescare da un infinito che possa garantire reale novità e reale mobilità storico-sociale, evoca, consciamente o meno, il Nulla è il dover rendere giustizia a quello, supremo inizio e fine.
Una fissa questa della fondazione teo-onto-logica della rivoluzione politica che attraversa molta parte dei pensatori radicali (eminente in tal senso la riflessione di Ernst Bloch, Avicenna e la sinistra aristotelica), in quello che può essere chiamato equivoco teologico-politico.
Oggi che sono passati più di quarantanni da queste riflessioni di Castoriadis e di rivoluzioni (immaginarie o meno) sotto i ponti ne sono passate, non sembra più un assurdità per gli occidentali accumulare ricchezze per distruggerle. Nella fase post-capitalista e possiamo dire tecno-teleologica che stiamo attraversando, in cui il principio produce sia i beni-ricchezze (per lo più superflui) sia l’interesse per quelli che va immaginato, Shibalba viene stra-valutata nel costituirsi come sciaquone dei preziosi di ieri e zavorra di oggi, garanzia del nuovo valore che ha nuova forma. La distruzione delle ricchezze immaginarie è propedeutica alla creazione di nuove.
Dunque quale ontologia non teleologica da infondere come immaginario sociale?
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@PHOTO by JOHNNY PARADISE SWAGGER, 2019