PSICOLOGIA DI INSTAGRAM: NARRAZIONE E IDENTITÀ

Recensione di Giuseppe Riva – Clelia Malighetti, Psicologia di Instagram, Edizioni San Paolo, Milano 2020.
Da quando Kevin Systrom e Mike Krieger diedero vita nel 2010 ad Instagram, è strascorsa ormai un’era. Certo, è da poco passata una decade, ma di acqua sotto i ponti parecchia. Da semplice applicazione per il mobile device, complice la trasformazione stessa che ha investito il telefono cellulare, trasfiguratosi, è ormai risaputo, in autentica «protesi inorganica», l’app è stata in grado di catalizzare l’attenzione di giovani e giovanissimi, divenendo così uno tra i social network più usati in tutto il mondo. La pervasività del social è tale da aver sfondato le barriere stesse costituite dagli schermi dei dispositivi: uno spillover – salto di specie – che è diventato un salto di mondi, un salto tra mondi i cui effetti si sono riverberati con esiti tra i più seri.
Ed è proprio questa sua diffusività che viene posta in primo piano da Giuseppe Riva e Clelia Malighetti in questo studio sulle ricadute psicologiche dell’uso di Instagram: ovverosia i cascami della sua quotidianità. L’app fa oramai parte del nostro vivere quotidiano, diventa sostanza delle nostre interazioni sociali, condiziona le relazioni interpersonali, contribuisce alle selezioni per i colloqui di lavoro. Oltre a questi campi, la sua ombra lunga si stende, di rimando, sulla costituzione della soggettività dell’utente: non essendo più un mero strumento facilitatore della socializzazione, possiamo affermare con gli autori che «Instagram fa parte dell’identità dei nostri figli» (p. 129), e anche di molti genitori. Il suo utilizzo è il modo più immediato di presentazione di un proprio sé che, sottratto dalla nebulosità concettuale del termine trasferita nella corrispettiva vaghezza pragmatica, corrisponde alla perfezione al proprio Io ideale, al completo rispecchiare la figura nello specchio, all’adattarsi alla figura che lo specchio mi proietta innanzi (cfr. Lacan e lo stadio dello specchio). È un progettarsi, un ingenerizzarsi, un costruirsi agile e dinamico grazie alle potenzialità dell’interattività delle applicazioni: il mettersi in mostra, l’esporsi allo sguardo dell’altro (esposto a sua volta), il reagire ai commenti e commentare a propria volta, tutto ciò contribuisce ad avere una maggiore contezza della propria rete sociale, del proprio posizionamento all’interno del mondo di Instragram:
il numero di ‘follower’ è diventato un metro di misura della propria importanza e popolarità. Avere una cerchia di follower ampia significa essere apprezzati, sia in rete sia nel mondo reale (p. 38).
Ora, è proprio la quotidianità del suo utilizzo che rende sempre più fluida la separazione tra mondo online e quello offline. Se il numero dei follower su Instagram istituisce assiologicamente il soggetto-account, conferendo uno status ontologico conseguente (più follower = più popolarità = più autorevolezza) che scavalla i confini della nicchia ecologica social, allora lo spillover si è compiuto. La permeabilità della vita offline ha mostrato così l’essenza cratica del multiverso online: chi prevarrà? Allo stato, i due contendenti si trovano a confliggere su di un terreno comune, nato dall’intreccio di queste due realtà ccontrapposte, ovverosia l’interrealtà
che permette di far entrare il digitale nel nostro mondo offline e viceversa, offrendo a tutti noi uno strumento potentissimo per creare e/o modificare la nostra esperienza sociale (Giuseppe Riva, I social network, il Mulino, 2016, seconda edizione, p. 33).
Tale condizione allora non può che portarci a riflettere sul contraccolpo di queste applicazioni, tanto per la codificazione dell’identità personale quanto di quella sociale. Consapevoli delle modificazioni relazionali-corporali che vedono nel disembodiment l’alfiere, di una ristruttazione degli schemi cognitivi e sociali e di una riconfigurazione complessiva della posizione del soggetto/utente all’interno delle reti sociali (indagati da Riva nel testo su menzionato, pp. 27-33), gli autori individuano tre paradossi costitutivi l’esperienza stessa di un social quale Instagram:
- bacino più esteso di ‘amicizie’, con significativa diluizione dei legami stretti. Si va a creare una rete maggiormente fitta di contatti, la cui densità emotiva risente comprensibilmente della vastità: maggiore estensione, minore intensione;
- l’utente è bombardato quotidianamente da una costante tempesta di scariche emotive che rendono assai complicata la gestione e la processione cosciente, diretta conseguenza di quel processo di disembodiment che può portare fino all’«analfabetismo emotivo» (Riva, Malighetti, pp. 99-101);
- alla maggior affluenza di emozioni non tiene dietro la necessaria spontaneità del sentire che rischia altresì di minare dalle fondamenta il principio secondo il quale Instagram diverrebbe «un luogo dove sperimentare se stessi, scoprirsi e conoscersi» (p. 50). L’autenticità professata corre il rischio di rovesciarsi nel suo opposto, sfociando in una continua rinegoziazione di sé sulla base di feedback più o meno lusinghieri, lasciando aperta la questione se l’immagine della propria vita presentata sui social non sia il «prodotto di una artificiosa ed esagerata costruzione di sé» (p. 100).
Così, nella ipermediatizzazione, nella diffusività estetica (Mecacci), nella sovraespozione del tessuto relazionale, nella condivisione e nella spettacolarizzazione di ogni singolo aspetto quotidiano un bias cognitivo si insinua nel panorama degli utenti del social network in oggetto: «l’effetto alone» (pp. 103-104). Studiato da Kahneman in Pensieri lenti e veloci, l’«effetto alone» è la patina che permette l’identificazione di un profilo (e dell’utente che tramite esso si esprime) con una sua caratteristica proponderante. Figura eminentemente retorica, l’«effetto alone» è l’equivalente della sineddoche: la parte al posto del tutto. Si eleva una peculiarità che colpisce (per originalità, per ironia, per acume, per sex appeal…) a rappresentante del profilo che da quel momento in avanti viene eletto in ossequio a quella prima considerazione, foss’anche, e solamente, la prima impressione. Ciò è tanto sintomo, quanto diretta conseguenza, della cosiddetta generazione di Instagram, cioè generazione di nativi digitali (ma non solo) che, grazie alle potenzialità dei loro dispositivi, non conoscono, o comunque mal sopportano, la dilazione temporale: abituati ad avere tutto a portata di mano, di click (digitazione irriflessa: clickbaiting; cfr. Fadda, Troppo lontani troppo vicini), i più giovani possono anche manifestare disturbi del comportamento (per citare un esempio, la FOMO, acronimo per Fear of missing out: paura di essere tagliati fuori dal mondo se non si aggiorna il feed o non si scorrono le notifiche).
Come che sia, queste intrinseche criticità non possono presentare una argomentazione ostativa all’utilizzo di Instagram: l’intero capitolo III, non a caso, è interamente dedicato all’enucleazione di alcune possibilità proprie dell’app che grazie alle sue funzionalità atte al «potenziamento personale», all’iniezione di creatività, all’acquisizione di nuove capacità narrative (storytelling) e ad una più meditata gestione del proprio descriversi agli altri (personal branding), rendono il social uno strumento importante per l’accrescimento della concezione del sé e degli altri.
Pertanto, solamente se consapevoli della multistratificazione delle dinamiche del social network, gli utenti giovani e meno giovani possono utilizzare proficuamente la piattaforma, contribuendo così alla definizione della propria identità in transizione e sempre metastabile, tanto più durante l’adolescenza.
L’illustrazione nel corpo del testo è una personale reinterpretazione di E. Hopper, Morning Sun, olioio su tela, cm. 101,98 × 71,5, 1952, conservato presso il Columbus Museum of Art, US.
@ILLUS. NEL CORPO DEL TESTO by, JOHHNY PARADISE SWAGGER ft PATRICIA MCBEAL, 2021